Della Grecia… e dell’Europa

“Abbiamo un governo che non emula le leggi dei vicini, che non amministra lo Stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama democrazia… quanto alla povertà, se uno è in grado di far del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale”: queste sono le parole di Pericle, grande legislatore che ha governato Atene dal 460 al 429 a.C.

Viene un brivido a pensare che la culla di tutto ciò che è, o dovrebbe essere, la civiltà europea venga oggi messa all’angolo dall’Europa stessa.

La parola Europa, fra l’altro, ha origini antichissime e profondi significati: secondo un mito, che abbraccia il Mediterraneo orientale nel suo insieme, era il nome di una principessa di Tiro, città fenicia, che fu rapita da Zeus e portata nell’isola di Creta, dove mise al mondo molti figli che popolarono il nostro continente. Questo mito fa capire che la civiltà ci ha raggiunto, provenendo dal Medioriente, attraverso le isole greche; in particolare a diffondersi è stata la conoscenza delle tecniche agricole; fa comprendere anche come i popoli europei si siano formati grazie all’apporto di migranti, così come ci spiega la storia, e ancora che noi tutti possiamo considerarci un po’ figli della stessa madre, appunto l’Europa. Il mito ci spiega anche come i popoli che abitano intorno al Mediterraneo abbiano radici comuni e forse destini comuni, seppur oggi tutto ciò sembri molto lontano.

L’Europa ha vissuto secoli di guerre fratricide tremende e, solo dopo l’ennesima spietata carneficina, alcuni intellettuali hanno avuto un sogno, un’idea di altissimo valore morale che servisse da esempio per tutti, forse un’utopia: unire i popoli europei per evitare nuove barbarie, nella speranza di poter unire un giorno il mondo intero. Sono di Altiero Spinelli, un antifascista italiano per anni in carcere e poi confinato a Ventotene, le seguenti parole: “E quando superato l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione d’insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti fra i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.

Oggi sembra che questo sogno sia finito: l’Europa appare un’unione solo economica e monetaria dove i più forti dettano le regole ai più deboli, dove non c’è posto per la solidarietà, né per spingere in avanti il progetto originario di giungere ad una vera unione politica. Questo non è un pericolo solo per il nostro continente, che vede ormai singoli paesi lasciati da soli a risolvere problemi complicati sia di politica interna sia estera, senza alcuna cura per il bene comune, ma è una sconfitta per il mondo intero perché l’Europa unita rappresentava, e spero ancora rappresenti nonostante le continue pessime notizie, un progetto virtuoso, una strada percorribile da altri. Potremmo noi europei essere un esempio per tutti di cooperazione, democrazia, pace, libertà, mutuo aiuto, solidarietà verso i popoli che vivono nella miseria e nella violenza di guerre inaudite. L’Unione potrebbe addirittura espandersi oltre i propri stessi confini (ma quali sono poi i suoi limiti geografici?) e abbracciare il Mediterraneo e i paesi che vi si affacciano e, perché no, anche la grande Russia.

Questo sogno sta naufragando sulle macerie economiche della Grecia, paese a cui si è disposti a rinunciare in nome delle regole liberiste, che si è disposti ad umiliare come un nemico, un peso che si vuol scaricare. Quanta valenza simbolica c’è in questo passo fatidico: si è disposti a rinunciare alla terra in cui l’Europa è nata!

Questo sogno sta perdendosi insieme ai profughi che nessuno in Europa vuole, in nome di una sicurezza che è impossibile senza politiche di inclusione. Questo sogno inoltre muore nell’assenza di una lungimirante politica estera, mancanza che potrebbe portarci tutti sull’orlo del baratro.

Ho guardato il volto di Tsipras intervistato alla tv greca e, indipendentemente dagli errori che anche lui può aver fatto e che non so valutare perché non voglio credere ciecamente a certe affermazioni di esponenti della controparte, ho visto l’orgoglio ferito, la dignità di chi, messo in ginocchio, alza ancora la testa; l’ho notato soprattutto nelle parole: “noi greci sopravvivremo, domani si leverà il sole e respireremo ancora”.

Se la Grecia viene abbandonata, se i profughi vengono abbandonati, se l’idea di una politica comune e saggia non sfiora neanche più le menti di chi ha il potere di cambiare le cose, allora domani si leverà il sole, ma il sogno europeo non avrà aria per respirare e non so se noi europei sopravvivremo e forse l’umanità intera, e per quanto e come.

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Privi di compassione

Sono ottocento in fondo al mare, lo hanno confermato i telegiornali. I più poveri di loro sono racchiusi nella nave della speranza, diventata la loro bara; altri hanno come sudario il Mediterraneo, finché i loro corpi non si disferanno senza nome, senza storia, mentre qualcuno, lontano, continuerà a chiamarli nella notte, e a piangere le loro brevi vite divorate dal nulla.
Non sono solo ottocento, sono decine di migliaia; il numero non lo sapremo mai, forse diventeranno milioni. Un giorno qualcuno celebrerà il loro olocausto? Il loro essere desaparecidos? Spariti, inghiottiti, oppure trovati e seppelliti senza nome in un cimitero straniero: qualcuno li ricorderà in questo suolo in cui speravano di trovare la pace? La vita?
Ascolto i discorsi della gente, i loro umori: non c’è posto, o quasi, per questa umanità perduta. Ancor meno c’è posto nel cuore della gente per quelli che hanno la ‘colpa’ di essersi salvati e di aver ora bisogno di tutto.
Sento freddo, tanto freddo intorno a me, quando non sento odio, disprezzo, o come minimo indifferenza, seppur qualche volta patinata di un commento pietistico che dura solo secondi. Dimenticare, perché non sono nostri. Non vedere, perché sono scomodi. Non dire. Sì, anch’io spesso non dico, non ne parlo, e così forse altri come me. Chi li pensa, ha paura a parlare: paura di soffrire.
Io ho paura di soffrire perché ho paura di avvertire le mie parole suonare in una stanza vuota, dove nessuno c’è a rispondere, a capire, a piangere con me. Ho paura di quel “sì, poverini ma…” Quel “ma” che significa tante cose: dal “come facciamo” al “in fondo, chi se ne frega”. Sbaglio, lo so, a tacere: è codardia, ed è anche disperazione. La mia è la disperazione di appartenere ad un mondo che non mi appartiene, e da cui però non posso neppure uscire, perché anch’io sono dalla parte di chi né patisce la fame, né vive con l’angoscia che un ordigno o una pallottola metta fine ai suoi giorni.
Ripensando alle immagini dei telegiornali, ricordo anche i corpi vivi tirati in salvo su una scialuppa da braccia robuste e sicure, quei corpi scuri di ragazzi, inzuppati d’acqua, fragili e nudi, completamente nudi. Loro mi sono sembrati i veri poveri, i veri ultimi, più poveri dei nostri poveri, più ultimi dei nostri ultimi. Perché anche loro non dovrebbero essere nostri? Quando c’è un terremoto qui in Italia, tutti si commuovono, tutti stanno incollati al televisore, tutti mandano aiuti, tutti sentono quel dolore come il loro. Perché per questi no?
Penso anche a quelle braccia robuste che li hanno presi, così, senza vestiti, senza nulla, annichiliti dalla paura, dallo spasimo del vedere la morte in faccia, attaccati a quell’ultimo guizzo di vita, a un salvagente, a una presenza, ad una nave in lontananza che arriva, e distrutti dai compagni o parenti che hanno visto morire.
Chi li raccoglie in mare ha lacrime per loro, si sente dilaniato dal ricordo delle mani che gli sono scivolate nell’abisso, magari quelle di un bambino. Chi li raccoglie in mare ha compassione.
Bisogna vederlo dal vivo il dolore? Bisogna esserci a sentire le grida? Bisogna esserci a vedere che sono come noi? Forse è questo il problema: la maggior parte non crede che siano esseri umani uguali a noi, che come noi hanno una storia, degli affetti, dei desideri, delle speranze, la paura e, più di noi, il coraggio.
Cosa strana la compassione: dovrebbe essere universale, per ogni vita, per ogni essere di questa terra, e forse anche oltre, e invece diventa selettiva, un’ubriacatura di emozioni a compartimenti stagni, e per il resto nulla. Emerge l’incapacità a immedesimarsi nei diversi per nazionalità, colore della pelle, credenze, abitudini. Per questi la maggioranza è priva di compassione.
Poi c’è il timore che i profughi vengano a stravolgere le nostre sicurezze, che occorra condividere qualcosa con loro, che ci rubino un po’ del nostro benessere, oggi avvertito sempre più scarso. Alla compassione dovrebbe aggiungersi la consapevolezza che non ci può essere alcuna sicurezza, né felicità, in un mondo dove solo una piccola parte dell’umanità ha diritto a sopravvivere.

Un’iniziativa da segnalare: http://www.moas.eu/it/who-we-are/

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L’irrompere dell’irrazionale nella Storia

I valori occidentali, l’Illuminismo, il trionfo delle libertà e della ragione, la lotta contro l’oscurantismo e l’assolutismo, e poi, più tardi, contro l’orrenda e criminale follia del nazismo, la lotta comune per la democrazia e i diritti: questo è il volto migliore dell’Occidente. Purtroppo non è l’unico.

La nostra è anche una civiltà ipertecnologica dove girano immense ricchezze non redistribuite; una società frammentata con tante solitudini riempite di ambizioni di status, dove si guarda poco ai più che rimangono indietro. Un mondo impaurito da tutto: dalla perdita di piccoli e grandi privilegi, da un futuro incerto, dagli altri, dai propri figli sempre più sconosciuti, dagli stranieri che bussano alle porte. E’ una civiltà che sembra essere fallita perché, per sete di potere, ha abdicato alla sua vera identità e ai suoi valori nati da secoli di pensiero filosofico, religioso, secoli di tentativi di superare le disuguaglianze, gli odi, per giungere ad una convivenza pacifica e democratica.

La ragione, la scienza, la legalità, i valori liberali e socialisti sono il cardine delle costituzioni europee e americana, ma tutto questo è contraddetto dalla storia e anche dall’attuale realtà, e si scontra con l’avanzare dalle povertà causate da ignobili ingiustizie che provocano risentimenti e ribellioni. La storia dell’Occidente è costellata di crimini, sopraffazioni, guerre e distruzioni soprattutto verso i più deboli, dominio e sfruttamento. I diritti sono per pochi, per chi è dentro al recinto del privilegio, a cui bussano milioni di disperati che vedono innalzarsi muri sempre più alti, oppure si vedono “accolti” come uomini e donne di serie “b”. Le promesse dell’Occidente verso il mondo intero non sono state mantenute: bombe invece di benessere, armi più che giustizia, sottomissione più che diritti e libertà, complici i peggiori dittatori locali, oppure, all’interno dei nostri paesi, quartieri ghetto invece che integrazione.

Un pericolo si sta manifestando nel mondo: che il volto positivo dell’Occidente venga disconosciuto o rinnegato. Quando una società e una cultura basate sulla ragione e la democrazia dimostrano di non mantenere le promesse fatte, e di contraddirsi in continuazione, allora nascono e si sviluppano ideologie e passioni irrazionali, estreme, violente, che ci potrebbero riportare tutti indietro di secoli. Si aprono le porte a speranze cieche in età dell’oro impossibili che nascondono tremendi totalitarismi, o si propagandano chiusure improponibili nell’era della globalizzazione, che possono condurre solo a una guerra generalizzata; irrompe il disprezzo per il diverso, talvolta per la vita stessa, quella degli altri, e perfino la propria, come nel caso di coloro che si immolano  per una causa assurda e criminale, come il fondamentalismo islamico.  Pare forse, a questi, l’ultimo appello per dare un senso a un’esistenza devastata, perché lasciare un’immagine di sé eroica e martire agli occhi di chi condivide il loro credo pazzo ed assassino, diventa più importante che vivere essendo nessuno.

Le reazioni al terrorismo e all’estremismo si dividono in due tipi: c’è chi risponde appellandosi a tutto ciò che di buono le nostre società hanno prodotto e alla loro traduzione in realtà politiche e sociali a cui tutti i popoli possano accedere e contribuire, pur nelle loro differenze culturali e religiose; c’è chi invece invoca l’arroccamento contro tutti gli stranieri, anche quelli, la stragrande maggioranza, che non hanno alcuna colpa; atteggiamento quest’ultimo che può solo perpetrare odi e conflitti sempre più allargati e portarci, come detto precedentemente, indietro di secoli.

E’ un’irrazionalità, quella che rischia di irrompere nella Storia, ben più grave di tutte quelle che abbiamo visto in questi ultimi secoli, non perché il nazismo non lo fosse, ma perché ad esso si sono opposti valori profondissimi che potevano, come hanno fatto, solo vincere, tanto erano grandi, e radicati in quegli uomini altrettanto grandi. Oggi temo che all’irrazionalità e alla crudeltà di chi decapita chi gli si oppone, all’irrazionalità assassina di chi uccide giornalisti, tentando di piegare anche l’informazione al proprio credo assolutista, all’irrazionalità e alla cattiveria di chi riduce donne e bambini in schiavitù in nome del proprio, bizzarro, dio, non ci sia una risposta alta e costruttiva come quella della nostra passata Resistenza. E’ questo che temo quando, in questi giorni, leggo i titoli di testate italiane quali Libero e Il Giornale, o sento le sparate velenose di Salvini. Per fortuna ci sono anche altre voci, che cercano risposte che sappiano unire tutti coloro che amano la pace, la libertà e la giustizia senza badare quale sia la loro nazione o religione, risposte che possano strappare i giovani al nichilismo, a qualsiasi cultura questo appartenga. Inoltre ci sono anche altre notizie, talvolta troppo poco diffuse: tutte quelle che riguardano le chiare e calde prese di posizione musulmane rispetto a quanto accaduto, e anche, tra le altre, la bella storia di Lassana Bathily, il musulmano del Mali che nel supermercato ebraico ha salvato diversi ostaggi nascondendoli nella cella frigorifero.

Noi occidentali, e in particolare noi europei, dobbiamo ritornare a credere nei nostri valori, sia che siamo laici o cristiani, e soprattutto cominciare a metterli in pratica in politica interna ed estera; dobbiamo opporci a chi fra noi nelle parole e negli atti umilia questi valori, ne è lontano anni luce. Con la nostra coerenza, e non volendo esportare con la forza democrazie corrotte, dobbiamo ammaliare, convincere i popoli diversi da noi che certi valori sono universali, e le primavere arabe, al loro inizio, hanno mostrato quanto sia profonda tale consapevolezza nel mondo arabo, perché i bisogni essenziali degli esseri umani sono gli stessi per tutti. Dobbiamo aprire le nostre menti e i nostri cuori al diverso, allo straniero che è nei nostri paesi, e che spesso si sente uno di noi perché qui da anni o da sempre, pur non essendo riconosciuto come tale. Dialogare con le comunità musulmane non è difficile, perché molte non aspettano altro che di essere riconosciute parte dell’Europa, o, nel nostro caso, dell’Italia, soprattutto se lo aspettano i loro ragazzi, i nostri figli. Dialogare per cercare insieme le parole, i messaggi, i mezzi per sconfiggere ideologie aberranti che oggi sono nate in seno al mondo musulmano esattamente come ieri erano trionfate, seppur in forma diversa e per motivi diversi, nel nostro progressista e progredito continente.

 

 

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Terrore islamico e dialogo fra civiltà

Le notizie che giungono dall’est e dal sud del Mediterraneo mi turbano ogni giorno di più, s’insinuano nella mia quotidianità, mi lasciano attonita. Ciò che sta accadendo è difficile da cogliere anche per me che mi sforzo di informarmi e riflettere; ho sempre la sensazione che il puzzle non riesco a completarlo perché mi mancano pezzi importanti.

Nei primi mesi delle primavere arabe ho visto l’anelito alla libertà, alla democrazia, al laicismo, all’emancipazione femminile… poi, allo sbocciare dei primi fiori, nubi scure si sono addensate e pioggia fredda ha disperso ogni petalo. Dove è andata meglio, nel senso che in questo momento non si combatte, sono al potere o i militari, come in Egitto, o partiti legati ad una visione religiosa conservatrice. Altrove è il caos, l’irrompere di gruppi, bande che vogliono il potere, i signori della guerra, oppure che credono che l’unica risposta alle ingiustizie dell’Occidente sia l’odio indiscriminato e la vendetta, e che contrappongono all’islamofobia, la ferocia nei confronti dei loro stessi fratelli cristiani, e non solo. E lì la fede diventa nuovamente, come diceva Marx, “oppio dei popoli”.

La maggior parte dei mass media non spiegano che i fatti giorno per giorno, o almeno alcuni fatti, ma io vorrei che spiegassero, per esempio, come siamo arrivati a questo punto in Siria, in Iraq, come è sorta l’Isis, e soprattutto come possiamo fermarne il proselitismo. Vorrei che fossero ricordate le responsabilità dei paesi occidentali, incapaci di politiche lungimiranti, e la loro non volontà di usare gli stessi pesi e le stesse misure per tutte quelle nazioni che si macchiano di crimini di guerra, lasciando sempre impunito Israele.

Confesso che ho paura per quello che sta accadendo, paura anche per i tanti musulmani che sono in Europa: non solo di quei pochi spietati e fanatici che potrebbero portare il terrore sotto la porta di casa, magari suicidandosi a vent’anni o meno, per una causa che qualcuno ha fatto loro credere giusta, ma per quelli che nei nostri paesi sono venuti pieni di speranza per dare un futuro ai loro figli.

La fobia del diverso, del possibile “untore” sta correndo al galoppo nelle nostre comunità e si muove come un ordigno a orologeria nelle menti e nei cuori. Parole che ho ascoltato, come: “buttiamo una bomba atomica su tutti gli arabi” non sono solo stupidità dette da persone ignoranti (e l’ignoranza non corrisponde sempre al titolo di studio), ma sono il sintomo eclatante di ciò che si muove nella psiche collettiva, e il radicalizzarsi delle contrapposizioni è proprio ciò che ci può portare allo scontro totale di civiltà, o forse sarebbe meglio dire inciviltà, come scrive nel suo libro Benali Nacéra a proposito dei pregiudizi reciproci.

Oltre a inchieste più approfondite su cause, interconnessioni, responsabilità, dall’informazione vorrei fosse fatta più luce sulle migliaia di persone che non stanno perdendo il senso dell’umanità, il rispetto dell’altro, l’amore per la giustizia, la voglia di lottare, la voglia di cercare verità più ampie, di emanciparsi da oscurantismi, mediorientali o occidentali che siano. Abbiamo bisogno di esempi, di simboli, di poter vedere figure di riferimento anche negli altri popoli, tra i credenti di altre religioni, per poter unire gli sforzi di tutti, di tutti gli uomini e le donne che non sono preda del fanatismo inculcato a fini politici, o di pregiudizi medioevali da crociati, che non sono immischiati con poteri e lobby, che riconoscono che l’umanità è una e che senza dialogo si suiciderà.  Di tutto questo oggi abbiamo necessità assoluta, prima che nel cuore dei più ci sia solo posto per la paura, per la voglia di chiudersi, di difendersi, per vedere nell’altro solo il mostro… per la guerra.

Per questo mi sono messa a cercare su internet notizie riguardanti persone, nel mondo islamico, che hanno assunto pubblicamente, e talora a loro grave rischio e pericolo, la difesa delle minoranze, dei diritti umani, di una società multireligiosa e multietnica (quale è sempre stata in Siria per esempio), per opporsi e resistere a quello che forse potremmo definire “fascismo o nazismo islamico”, pur consapevoli che i parallelismi nella storia valgono poco e talvolta sono fuorvianti.

Ho trovato un video e le foto della giornalista Dalia AlAqidi, dipendente dell’emittente irachena Sumaria, che con coraggio si è messa una croce al collo e si è scagliata in tv contro il “fascismo politico islamista”; “colui che tace sulla giustizia è un diavolo muto”, ha detto la donna. Agli estremisti che l’accusano di essere  “infedele”,  AlAqidi ha replicato che si è messa la croce al collo proprio per difendere “il pluralismo religioso che ha fatto dell’Iraq la culla della civiltà”. La giornalista ha affermato che l’islam è “una religione della tolleranza”, e perciò ha accusato i suoi detrattori  di non essere veri credenti. “Siete voi gli apostati” ha detto, “mentre io sono un semplice essere umano che difende i diritti dei figli del proprio paese, qualunque sia la loro identità; il fascismo politico islamista ha indotto i musulmani moderati come me a vergognarsi della loro religione”. Se è vero che “la paura ha ridotto molti al silenzio”, ha aggiunto “io non starò zitta davanti a questa ingiustizia”. La donna ha poi invitato a seguire la sua iniziativa, che “è rivolta a tutti, contro chiunque tenti di cancellare la civiltà”.

La collega Dima Sadeq, della rete libanese si è presentata in tv con stampata sulla t-shirt la lettera araba  corrispondente alla “N” iniziale della parola “nazareni” con cui sono state marchiate le case dei cristiani nella città di Mosul. Sadeq ha detto: “Da Mosul a Beirut, siamo tutti cristiani”.

A Mosul i guerriglieri dell’Isis hanno ucciso, secondo l’ONU, tra il 12 e il 14 giugno, sedici ulema (teologi) sunniti di una confraternita sufi (i sufi appartengono alla corrente mistica dell’islam). Alcuni di loro sono stati uccisi ancora prima che venissero emanati gli editti contro i cristiani perché si erano opposti all’interpretazione dell’islam seguita dai terroristi.

Sono grata al “Corriere della Sera” che il 14 agosto ha riportato sul suo sito molte delle prese di posizione di autorità e studiosi dell’islam. Ne cito alcuni e riporto le loro parole: il professore di Al Azhar Mohammad Al Gossi, sul quotidiano egiziano Al Ahram ha scritto: “La minaccia dell’Isis è visibile nelle sofferenze di donne e bambini delle minoranze religiose, ma anche di musulmani sia sciiti che sunniti, assassinati per la sola colpa di pensarla diversamente o di non obbedire ai folli disegni dei jihadisti”; lo sceicco saudita Issa Al-Ghaith, membro del Consiglio Shura, ha invitato i giovani “a dire no al terrorismo sui social network, scrivendo lettere ai giornali, sms, commenti nei siti e nei loro blog”. Il Mufti dell’Egitto, Shawki Allam, che rappresenta la visione di Al Azhar, la più importante istituzione dell’Islam sunnita, ha condannato l’Isis definendola “un pericolo per l’islam”, e aggiungendo: “chiedo ai media di non chiamarla Stato Islamico, perché le loro azioni sono contrarie ai valori dell’islam. Questi criminali compiono atti sanguinari contro donne e bambini, in contrasto con gli insegnamenti del nostro profeta”.

Ho riportato tali fatti e citazioni proprio perché credo che l’unico modo per contrastare la barbarie a cui stiamo assistendo, sia dialogare e unire le forze di tutti coloro che aborriscono le violenze inaudite che ricordano i tempi più atroci e oscuri della storia recente e passata.

Siamo in un momento di grande oscurità e pericolo per la pace e il senso stesso di umanità, ma io voglio sperare che proprio il manifestarsi così atroce dell’estremismo possa indurre ad un profondo ripensamento sia l’occidente sia il mondo islamico. Ricordo a tal proposito le parole di Abdelwahab Medded, docente di letteratura comparata all’Università di Paris X-Nanterre e autore dell’interessantissimo saggio “La malattia dell’Islam”. Sintetizzando il suo profondo pensiero, posso dire che se l’islam si ammala, guarirlo deve essere il compito urgente che deve interessare tanto l’umanità islamica, quanto l’umanità europea e americana. Se l’islam si trasforma in un problema, questo deve essere affrontato da ogni essere umano in quanto è la seconda religione nel mondo. E’ nella lotta comune contro fondamentalismo e dittature che può essere pensata la solidarietà occidentale e musulmana. Occorre fare una politica che sia in grado di stabilire un rapporto di fiducia, e tale fiducia non può esserci se non come risultato dell’applicazione della giustizia.

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Gaza: immagini e parole

foto da Gaza: la raccoglitrice di libri.

foto da Gaza: la raccoglitrice di libri.

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Cerco di immaginare come ci si senta ad esser chiusi in un recinto, seppur grande, senza possibilità di fuga, ed essere obiettivo bellico, giorno e notte. A Gaza non ci sono rifugi antiaerei, e non so neppure se suonano gli allarmi, per andare dove poi? A Gaza è difficile bere, mangiare, curarsi, seppellire i morti, piangere il proprio figlio diviso in due da una bomba.
Non condivido l’atteggiamento di Hamas per tre motivi: fa uccidere il suo popolo; avrebbe più successo con una lotta nonviolenta, perché toglierebbe ogni giustificazione al governo israeliano per compiere un genocidio; ogni morte è ingiusta anche se l’ucciso fosse Caino.
Gli israeliani non dormono sicuri, non vanno al lavoro o a scuola sicuri, ma come può esserci sicurezza quando una nazione da quasi settant’anni porta avanti una politica coloniale? Chi vuole la pace c’è, ma è una minoranza che non è stata plagiata dalla propaganda o che non ha interessi personali che fanno dimenticare qualsiasi senso etico. Fare la pace, però,  significa riconoscere il diritto dei palestinesi alla Cisgiordania in via di colonizzazione, all’unione territoriale con Gaza; riconoscere il diritto dei palestinesi all’acqua, alla terra, all’indipendenza…i diritti dei tanti profughi…Israele non sembra averne alcuna intenzione.
Al di là dei due contendenti ci sono poi le responsabilità della comunità internazionale: non si può lasciare incancrenire una tale situazione le cui conseguenze sono già diventate mostruose anche al di là dei confini dei belligeranti: la causa palestinese è il più grande motivo di propaganda di tutti gli estremismi islamici che stanno diffondendo guerre e terrore in tanti paesi, e che in tanti paesi musulmani fanno proselitismo. Le politiche miopi purtroppo si pagano, ma a soffrire sono sempre più i popoli che i loro governanti.

Vedi intervista  Moni Ovadia: http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/08/06/gaza-moni-ovadia-tsipras-israele-non-si-difende-fa-guerra-italia-non-ha-coraggio/291600/
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La prima neve

“Le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme” dice l’anziano e saggio Pietro nel nuovo film di Andrea Segre. A “stare insieme” però sono persone di origine e cultura diversissime: una famiglia trentina che abita fra alte montagne e magici boschi, in un’isolata valle dove si parla ancora un antichissimo dialetto germanico; un giovane uomo, originario del Togo, costretto a fuggire dalla guerra civile libica, vedovo da poco, con una bambina che non riesce a guardare perché il suo volto gli ricorda troppo quello della madre.

La famiglia trentina è attraversata da un dolore altrettanto distruttivo: la morte del padre di Michele, un ragazzo di otto anni che reagisce a questo trauma con la ribellione. Tra questi personaggi lentamente, fra lunghi silenzi o parole ridotte all’essenziale, si instaura un dialogo, grazie alla presenza del vecchio boscaiolo che conosce le ferite dell’anima e intuisce una loro possibilità di rielaborazione.

Le differenze culturali, non sopite, sono accettate rispettando la libertà di scelta, e i protagonisti trovano un punto di contatto proprio nei sentimenti. Michele non accetta la madre, che ritiene, nelle sue fantasie di bambino, colpevole della morte del padre; Dani, il giovane venuto dall’Africa, vorrebbe abbandonare la figlia convinto di non avere nulla da darle.

Solo quando, in entrambi i casi, il dolore comincia ad essere raccontato, si scopre che ha lo stesso odore, indipendentemente dalle differenze che vi sono tra le persone, e allora le scelte cambiano perché le affinità uniscono e permettono a tutti di avere ancora la possibilità di continuare a vivere aiutandosi reciprocamente.

Mi colpisce in Segre la capacità di esplorare il dolore nei suoi meandri più duri, insidiosi, e nello stesso tempo di dare delle risposte, delle speranze, mostrare delle luci proprio attraverso la condivisione.

La rielaborazione del dolore ha però per nemici una società competitiva dove l’infelicità è fallimento e, perfino quanto non c’è nessuna responsabilità da parte di chi ne è colpito, non va mostrata troppo e superata al più presto. Le sono nemiche il chiacchiericcio insulso, la vita frenetica che non lascia spazio all’interiorità, le ricette facili. Condivisione e rielaborazione hanno bisogno di tempi lunghi, tanto silenzio, gesti semplici e parole che nascono dal profondo, pronunciate in ‘punta di piedi’; hanno bisogno di lasciar spazio al pianto sommesso, al vero rispetto, al non voler cambiare o adeguare l’altro. Il dolore, inoltre, ha bisogno della bellezza e del mistero della natura, dove vita e morte si incontrano, dove gli immensi spazi diventano una foresta di simboli che parlano all’animo inquieto e sofferente.

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Clave, parole e…narcisismo

 La parola è ciò che ci rende diversi dagli animali, che ci permette una comunicazione, rispetto ad essi, più fine, più complessa, e inoltre ci permette di riflettere su di noi, sugli altri, su ciò che facciamo, sul bene e sul male, sul mondo che ci circonda e che contribuiamo a costruire o distruggere. La parola ha permesso a noi, fra i più deboli esseri viventi del pianeta, di stare insieme, lottare insieme per la sopravvivenza, creare la società e la cultura, fare memoria e trasmettere l’esperienza della specie alle future generazioni. La parola ha sviluppato la nostra intelligenza, la nostra coscienza di esistere e anche la capacità di consolare, insieme alla mano che per la prima volta ha afferrato un oggetto o ha accarezzato un volto; ha permesso di dare un nome alle nostre emozioni e di riflettere su di esse. Con le parole si possono trasmettere idee e sogni, spiegare le proprie ragioni, mostrare le proprie ferite, indignarsi per l’ingiustizia, per l’offesa subita nei confronti di se stessi o dei propri valori, si può essere testimoni dei diritti calpestati e lottare per il loro rispetto.

Le parole, però, possono anche distruggere l’altro, renderlo non umano, mostrare solo la propria arroganza, la convinzione totalitaria di essere nel giusto qualsiasi cosa si pensi. Ci sono parole che chiudono ogni confronto, che zittiscono l’interlocutore, che veicolano pregiudizi, etichettano negativamente, annientano, uccidono dentro, e tante volte nella storia tutto questo è stato preludio all’imposizione di sé e del proprio gruppo identitario, alla violenza fisica, alle  persecuzioni, alle stragi, alle guerre. La rabbia, anche quando è motivata, non deve colpire l’essere umano che è l’altro, ma l’ingiustizia che si ritiene lui stia permettendo e legittimando, tanto più se questo avviene all’interno di istituzioni che, pur con tutti i limiti che hanno a causa delle nefandezze commesse in questi ultimi decenni, permettono ancora di avere strumenti per difendere la democrazia.

Oggi, nella patologia del nostro sistema politico, sembra talvolta non esserci più posto per la parola ( che a volte viene negata), e neppure per la parola non-violenta, e questo significa che non c’è più posto per l’ascolto delle ragioni  dell’altro, e perciò per il dialogo costruttivo. Pericle, nell’antica Grecia, diceva: “Noi ateniesi ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione…”. Discutere appunto, non usare il linguaggio come una clava, o per far tacere o per scaricare addosso alla parte avversa le proprie frustrazioni o la convinzione, sempre errata, di essere gli unici portatori della verità. Indignarsi sì, indignarsi è giusto di fronte ai giochi di potere, alla corruzione, ma trovando dentro si sé quello spazio di saggezza che permetta di pronunciare parole che non siano sassi scagliati con l’obiettivo solo di demolire, ma pietre e mattoni per indicare strade, costruire ponti, o, se è necessario, affermare con dignità la propria disobbedienza, la propria non accettazione del sopruso, ma restando umani e riconoscendo l’altro come tale, evitando sommarie generalizzazioni. Mostrare l’ingiustizia, la sofferenza che ne consegue, con tutto se stessi, con sacrificio, ma in modo non-violento: lo hanno fatto persone come Gandhi, Nelson Mandela, e altri ancora, e non solo hanno vinto, ma sono diventati dei modelli per l’umanità. Purtroppo di questi esseri umani la storia ne ha visto pochi. Per poter diventare, non dico simili a loro, ma almeno cominciare ad andare nella loro direzione, c’è un grande ostacolo, che è alla base di tutti i conflitti violenti: il narcisismo.

A tal proposito, cito le frasi riportate dal giornalista Corrado Augias in un suo recente articolo, pronunciate dallo psicologo Nicola Artico: “Ho visto giovani deputati fronteggiare con il proprio viso quello di un altro come lupi di rango superiore, ho letto insulti di un sessismo arcaico nutrito da pulsioni mai sopite, ho riconosciuto un noto cluster diagnostico: il narcisismo. Non voglio fare una diagnosi a distanza, ma il tema del narcisismo, clinicamente, evoca un mix coordinato come un senso grandioso di importanza, credere di essere speciali, e dunque di poter essere capiti solo da persone (o istituzioni) altrettanto speciali; avere la sensazione che tutto ci sia dovuto, esibire comportamenti arroganti. Più in generale manifestare incapacità di controllare gli impulsi. Ogni volta che si passa all’agito (violento), si è incapaci di dare parola a un’emozione, e costruire simboli, dunque cultura. Si passa all’atto con la negazione anche semantica del concetto di “parlamento”. Questa dimensione colpisce i giovani parlamentari che, in gran parte, s’erano proposti come il nuovo”.

Temo che i colpevoli di tutto questo siamo ancora noi della vecchia generazione, noi che abbiamo educato al narcisismo i nostri figli, all’espressione del sé a qualsiasi costo, alla convinzione di avere diritto a tutto, al culto della propria persona in spregio al resto del mondo, e fondamentalmente ne abbiamo fatto degli esseri sì spavaldi, come dice lo psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet, ma fragili perché esposti alla continua delusione fra aspettative e realtà, che può trasformarsi in rabbia e violenza e nell’incapacità di incanalare e controllare i propri impulsi peggiori. Questo per Pietropolli è il ritratto dell’adolescente di oggi, e io dico che è anche quello di molti giovani uomini e donne che hanno difficoltà ad uscire da questa condizione anche quando l’età non sarebbe più quella. Tutto questo è diventato un problema politico nel nostro paese e mi chiedo se non rischi di travolgere le istituzioni. Mi auguro che ad un certo punto l’adolescenza finisca e ci si avvii, anche nel movimento di Grillo, verso la maturità, ma forse per far questo anche il leader dovrebbe essere diverso.

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Un mondo storto

 

Attraversare un torrente a piedi nudi. Togliersi le scarpe e andare tra l’acqua e i sassi. Sembra un gesto semplice, ma può stupire vederlo. E’ come sentire che qualcosa ci riporta indietro, tanto indietro, e rimaniamo lì a guardare due ragazzi acrobati sul fiume, mentre strade, autostrade, ponti di tutte le dimensioni sono il nostro paesaggio quotidiano di asfalto e cemento, quello in cui cerchiamo faticosamente di vivere. Non sappiamo più cos’è il freddo dell’acqua che scorre, come muoverci su pietre viscide levigate da secoli, quanta attenzione a non cadere, a non bagnarci, quanto tempo. Quel tempo che non abbiamo.

Ieri ero al supermercato: un movimento continuo di carelli e le file alla cassa; tutti ad aspettare di poter ingolfare l’auto di merci, cibi in scatole, scatolette, sacchetti, barattoli, cartoni, alluminio, vetro, plastica, tetra-pak, pvc…

Ad un tratto ho pensato a prima, tanto tempo prima, quando io ancora non c’ero, quando la gente il cibo lo produceva, ciascuno il suo, oppure lo comprava da chi conosceva: il latte di Maria, le patate di Oreste, l’olio che arrivava  dal mare, insieme agli acciugai che tornavano ogni anno, sempre gli stessi… Era naturale, qualcosa di naturale. Si sapeva da dove veniva quella merce, come era stata fatta… ci si fidava di chi la faceva, si parlava, si raccontavano storie…

Oggi quasi nessuno conosce, vede, parla, con chi produce i nostri cibi, né sa dove li produce, come, cosa succede dopo, come arrivano sugli scaffali dei grandi magazzini, magari dopo centinaia, migliaia di chilometri, o dopo aver attraversato continenti. Non si sa se qualcuno ha barato, o qualcuno ha sofferto per quel cibo o quella merce, se ha potuto dar da mangiare ai suoi figli o se ha lucrato, truffando la nostra salute e quella di altri, uomini, animali, mari, foreste.

A un tratto tutto mi è sembrato così innaturale, così assurdamente complicato.

Abbiamo tutto, noi delle società del benessere, tutto senza fatica, tutto a portata di mano o di carello, a portata di auto, di ascensore, nave, aereo, computer, rete, ma tutto è assurdamente complicato. Uno potrebbe pensare che la complicazione sia un bene, e forse in parte lo è: più informazioni, più possibilità, più formazione, più cultura, più intelligenza, più comprensione della realtà che ci circonda, più possibilità di fare le scelte giuste…

Quando poi una brava persona, che magari va in vacanza a Sharm prenotando il volo con il suo smarphone, mi dice ingenuamente, senza cattiveria né malizia politica, che le stragi di migranti nel Mediterraneo si dovrebbero evitare con una legge che non faccia venire più nessuno… allora capisco che qualcosa non va, tanto non va, enormemente tanto, e che la complessità non ci ha fatto diventare migliori, né più informati, né più riflessivi. Allora capisco che la complessità non fa bene a tutti, e rende molti più ottusi, pur illudendoli di essere qualcuno o qualcosa.

Non c’è nulla di peggio che non accorgersi di non sapere, di non capire; pensare di dominare il mondo con nuove tecnologie, e non vedere che ci stanno togliendo anche quell’ultimo tempo che ci rimane per ricordarci che respiriamo, magari aria viziata, ma respiriamo, per accorgerci che siamo vivi, magari profondamente malati nel corpo e ancor più nella mente, ma vivi. Accorgerci che oltre il nostro mondo artificiale ce n’è un altro, in agonia, ma c’è, e non è più semplice del nostro, però è più intelligente: la Natura sa cos’è la complessità, ma è una complessità che ha armonie a noi sconosciute, leggi ferree e tempi lunghi. Accorgerci anche che i castelli del benessere prima o poi saranno sfondati e dati alle fiamme se tutto intorno ad essi milioni di persone non hanno di che vivere, o anche solo se noi induciamo a credere che gli oggetti posseduti misurino l’importanza di un uomo.

Un tempo credevo che l’adolescenza fosse sempre, e per tutti, il periodo in cui si comincia ad interrogarsi stando anche ore a guardare il soffitto, o una montagna altissima, perché così era stata per me; credevo fosse il periodo in cui cominciare a misurarsi con un mondo che non ci corrisponde, non ci piace, un mondo da cambiare pensando e agendo. Oggi mi accorgo che molti ragazzi sono stressati come gli adulti tra mille attività divertenti o meno, e se resta del tempo libero raramente è occupato a pensare, e a provare a vedere davvero, non solo con gli occhi. Poi, quando un’emozione irrompe o un malessere profondo, ne sono sconvolti come bambini, e come bambini cercano di scacciarla con la prima cosa che capita, perdendo quell’attimo in cui potrebbero apprendere a diventare uomini e donne vere.

In Europa soprattutto noi italiani siamo un popolo incolto, che legge poco, che è stato plagiato da venti e più anni di politica becera, populista, capace di sdoganare il peggior individualismo, dilapidando i valori con cui la nostra democrazia si è formata, tradendo chi per essa ha perduto la vita.

Spero che qualcosa ci riporterà alla realtà, a comprendere, ma temo che non sarà indolore. Forse dovremo soffrire molto, forse le nuove generazioni avranno una ‘scuola’ feroce, e forse noi adulti dovremmo essere capaci di prepararli, renderli più forti. Ma quanti adulti tra di noi hanno smesso di essere bambini affamati di giochi pur di non pensare? O persone pronte a risposte semplici, stolte magari, quelle più facili o istintive, bassamente istintive?

E’ anche vero però che talvolta i popoli, e i giovani in particolare, sono capaci di salti di qualità poco prima impensabili, sospinti dalla necessità, ma anche dalla profonda e irrinunciabile esigenza che le cose abbiano un senso, che la propria esistenza abbia un senso, e la potente voglia di sentirsi liberi. Credo che questo sia uno di quei periodi cruciali in cui tutto possa avvenire, nel bene e nel male. Chi di noi è capace di vigilare, stia ben sveglio di fronte all’infrangersi dei flutti sui duri scogli della storia.

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La democrazia in pericolo, ricordando Orwell…

In questi giorni assistiamo, da parte dei membri del PDL, all’utilizzo di parole e frasi che falsificano completamente la realtà e che reputo altamente pericolose per la democrazia e l’equilibrio dei poteri che ne è alla base. Purtroppo mi ricordano molto il romanzo di Orwell “1984” in cui si descrive l’introduzione, da parte di un sistema totalitario, di una neolingua che permette di alterare il significato stesso dei termini, tanto da arrivare a slogan come: “ La pace è guerra” e “ La libertà è schiavitù”.

In Italia sentiamo affermazioni del tipo: “Berlusconi è perseguitato dalla magistratura”, “la condanna di Berlusconi è un pericolo per la democrazia”, “Berlusconi deve avere la garanzia dell’agibilità politica”, “ un uomo politico che ha preso nove milioni di voti non può uscire di scena per una condanna… Se nove milioni di persone lo hanno votato e si fidano di lui, non può essere interdetto dai pubblici uffici o considerato incandidabile per una sentenza dei magistrati”.

Personalmente mi chiedo come faccia la maggior parte degli italiani a non indignarsi tanto da scendere spontaneamente in piazza, e perché non sia in grado di percepire fino in fondo la vera minaccia alla democrazia che tali esternazioni rappresentano. E’ come se i cittadini fossero drogati da vent’anni di falsità, tanto da non rendersi più conto di come stanno realmente le cose, oppure talmente sfiduciati da non avere più la forza di alzare la testa, o ancora così patologicamente individualisti, fatalisti, e anche un po’ masochisti, come dice lo psicanalista Andreoli, da non reagire più a nessuna nefandezza, considerandosi forse anche loro un po’ cialtroni come gran parte della loro classe dirigente.

Occorre allora ricordare, e precisare, cose che dovrebbero essere ben conosciute da tutti e ovvie, e cioè che il sistema giudiziario in Italia è fortemente garantista, infatti ci sono tre gradi di giudizio prima di arrivare a una sentenza, e che emessa la sentenza finale, cioè quella della Cassazione, l’imputato diventa colpevole a tutti gli effetti. Inoltre consenso e legalità sono due cose che devono essere assolutamente separate in uno stato di diritto, ovvero non bastano milioni di voti per rendere un individuo impunibile; il rispetto delle regole è alla base di ogni sistema legalitario. E’ come se, per fare un paragone alquanto banale, ma estremamente chiaro, nel gioco del calcio nell’assegnare un rigore si volesse tener conto del numero e della volontà dei tifosi e non delle decisioni dell’arbitro.

In Italia, forse più che in altri Paesi, la magistratura è autonoma rispetto al potere esecutivo, ma questo, che è sancito dalla nostra Costituzione, considerata fra le migliori del mondo, è proprio ciò che garantisce che uomini senza scrupoli e avidi di potere a qualsiasi costo, che si considerano superiori alla legge, possano governare indisturbati fino alla fine dei loro giorni modificando a loro piacimento le regole che i nostri padri costituenti hanno stabilito per assicurare ai posteri libertà, diritti, e giustizia uguale per tutti.

Uno Stato in cui chi è al potere si sente superiore alla legge è, in modo palese o strisciante, un sistema totalitario che sancisce una profonda disuguaglianza fra i cittadini. Il consenso, populisticamente ottenuto  grazie anche alla propria ‘potenza’ mediatica, non può rendere superiori alle regole, altrimenti perfino il nazismo e il fascismo non potrebbero più essere considerate dittature, in quanto per molto tempo ebbero un largo seguito fra la popolazione.

Nelle democrazie mature anche come cambiare le istituzioni è regolamentato dalla costituzione, altrimenti vedremmo realizzarsi la temibile dittatura della maggioranza, in cui non ci può più essere cambiamento dello status quo in quanto l’opposizione sarebbe messa a tacere con leggi opportune. Perfino la magistratura vedrebbe una riforma della giustizia orchestrata in modo tale da impedirle di condannare i potenti, mentre le resterebbero tutti gli strumenti per i processi alla gente comune, quella che non conta nulla, realizzando il motto orwelliano de “La fattoria degli animali”: “ Tutti gli animali sono uguali, ma i maiali sono più uguali degli altri”.

 

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Le fanciulle del drago

La condanna in primo grado all’ex Presidente del Consiglio per concussione e prostituzione minorile ha sollevato moltissime polemiche contro la magistratura da parte dei fedelissimi del leader del PDL, i quali difendono il loro capo-padrone a oltranza, con argomentazioni che spesso lasciano attoniti o inorriditi.

I messaggi che vengono dati in pasto al pubblico, e purtroppo non solo oggi, personalmente mi rattristano molto, soprattutto sapendo che giungono alle orecchie di tanti ragazzi e giovanissime donne.

La Santanché, per esempio, a difesa di Berlusconi sbandiera il sacro diritto alla libertà. Ferrara si lancia contro quello che, secondo lui, sarebbe lo Stato etico, che limiterebbe i comportamenti privati secondo modelli illiberali e moralistici. In sostanza a difesa del premier entrambi affermano il principio che ciascuno può cercare il proprio piacere come vuole, purché nel sesso l’altro sia consenziente, sorvolando sul fatto che questo ‘altro’ potrebbe anche essere un minore ( come è accaduto nel caso di Berlusconi), che per la legge e la morale comune va naturalmente protetto.

Tutto questo ha cambiato la cultura e il costume nel nostro Paese, sdoganando il peggio dei bassi istinti maschili e, seppur diversi, anche femminili.

Avere un bel corpo per una ragazza è trovarsi nella condizione, volendo, di diventare una merce. La sua carne la può vendere al miglior offerente e non importa se l’acquirente ha trenta o settant’anni, e se, in quest’ultimo caso, un rapporto sessuale suscita, in un’adolescente, più  il vomito che altro. Ci si può abituare anche allo schifo, per tanti soldi ovviamente.

E’ vero che la prostituzione è sempre esistita, spesso però era, ed è, legata a necessità economiche, all’essere nel gradino più infimo della gerarchia sociale, a condizioni di schiavitù, sostanzialmente a terribili e umilianti ingiustizie, vissute come tali e odiate da chi vi si trova costretto.

In epoca contemporanea si è aggiunta la prostituzione per far carriera, per arricchirsi, per sfondare nel mondo dello spettacolo, o, peggio per i cittadini, per fare politica e avere lauti guadagni assicurati anche quando la propria capacità attrattiva non sarà più tale per lo scorrere inevitabile del tempo.

Tutto viene mercificato e il corpo della donna non è da meno, ma questo è un vero scempio della femminilità, e un attentato all’integrità della persona, alla sua necessità di crescita e sviluppo equilibrato.

Le giovani donne che intraprendono la strada di questo tipo di prostituzione probabilmente per molto tempo sono convinte di essere loro le padrone del loro corpo e di utilizzarne i vantaggi come per un qualsiasi altro oggetto o bene; in realtà di quella loro parte fondamentale, che tra l’altro è assurdo pensare separata dalla psiche, ne sono spossessate. Maschi che vedono nell’altro sesso null’altro che un oggetto per l’utilizzazione finale, le manipolano, le stuprano psichicamente, le riducono a semplici merci senza alcun cuore, strumenti di piacere come quelli che vendono nei sexy shop.

L’altro messaggio che passa è che l’uomo potente, molto ricco, attorniato di lecchini che lo elogiano e servono, solo per averne dei vantaggi, può possedere tutto, anche i corpi. Può avere qualsiasi tipo di piacere, perverso o meno, pedofilo o meno, a qualsiasi età. Qual è poi la ricaduta culturale e morale sul resto della popolazione? Un solo dato lo fa capire: gli uomini italiani sono fra quelli che maggiormente praticano il turismo sessuale, nei paesi poveri ovviamente, perché non tutti possono essere ricchi come il loro ex-premier. La lezione è stata appresa molto bene.

Se la cultura ostentata da gran parte della nostra classe dirigente mostra che il valore della donna è solo in  funzione alla sua capacità di diventare merce appetibile, non vedo quale libertà reale ci sia per il genere femminile, quale vera emancipazione. Nulla di tutto questo: solo un altro modo per essere, noi donne, serve del maschio. I femminicidi sono poi un altro aspetto dell’idea dilagante che la donna sia una proprietà dell’uomo, e che deve sempre piegarsi alla volontà maschile.

Nella maggior parte degli altri continenti le donne non sono libere, ma dobbiamo smetterla di pensare che nei nostri paesi sviluppati e democratici lo siano davvero. Prima ce ne renderemo conto, meglio sarà. Forse almeno impareremo a dare giudizi meno taglienti sulle altre culture che presentano sì espressioni aberranti della supremazia maschile, ma sono solo una variabile, seppur più vistosa, del generale maschilismo che continua ad affliggere i rapporti fra i generi.

 

 

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