Un mondo storto

 

Attraversare un torrente a piedi nudi. Togliersi le scarpe e andare tra l’acqua e i sassi. Sembra un gesto semplice, ma può stupire vederlo. E’ come sentire che qualcosa ci riporta indietro, tanto indietro, e rimaniamo lì a guardare due ragazzi acrobati sul fiume, mentre strade, autostrade, ponti di tutte le dimensioni sono il nostro paesaggio quotidiano di asfalto e cemento, quello in cui cerchiamo faticosamente di vivere. Non sappiamo più cos’è il freddo dell’acqua che scorre, come muoverci su pietre viscide levigate da secoli, quanta attenzione a non cadere, a non bagnarci, quanto tempo. Quel tempo che non abbiamo.

Ieri ero al supermercato: un movimento continuo di carelli e le file alla cassa; tutti ad aspettare di poter ingolfare l’auto di merci, cibi in scatole, scatolette, sacchetti, barattoli, cartoni, alluminio, vetro, plastica, tetra-pak, pvc…

Ad un tratto ho pensato a prima, tanto tempo prima, quando io ancora non c’ero, quando la gente il cibo lo produceva, ciascuno il suo, oppure lo comprava da chi conosceva: il latte di Maria, le patate di Oreste, l’olio che arrivava  dal mare, insieme agli acciugai che tornavano ogni anno, sempre gli stessi… Era naturale, qualcosa di naturale. Si sapeva da dove veniva quella merce, come era stata fatta… ci si fidava di chi la faceva, si parlava, si raccontavano storie…

Oggi quasi nessuno conosce, vede, parla, con chi produce i nostri cibi, né sa dove li produce, come, cosa succede dopo, come arrivano sugli scaffali dei grandi magazzini, magari dopo centinaia, migliaia di chilometri, o dopo aver attraversato continenti. Non si sa se qualcuno ha barato, o qualcuno ha sofferto per quel cibo o quella merce, se ha potuto dar da mangiare ai suoi figli o se ha lucrato, truffando la nostra salute e quella di altri, uomini, animali, mari, foreste.

A un tratto tutto mi è sembrato così innaturale, così assurdamente complicato.

Abbiamo tutto, noi delle società del benessere, tutto senza fatica, tutto a portata di mano o di carello, a portata di auto, di ascensore, nave, aereo, computer, rete, ma tutto è assurdamente complicato. Uno potrebbe pensare che la complicazione sia un bene, e forse in parte lo è: più informazioni, più possibilità, più formazione, più cultura, più intelligenza, più comprensione della realtà che ci circonda, più possibilità di fare le scelte giuste…

Quando poi una brava persona, che magari va in vacanza a Sharm prenotando il volo con il suo smarphone, mi dice ingenuamente, senza cattiveria né malizia politica, che le stragi di migranti nel Mediterraneo si dovrebbero evitare con una legge che non faccia venire più nessuno… allora capisco che qualcosa non va, tanto non va, enormemente tanto, e che la complessità non ci ha fatto diventare migliori, né più informati, né più riflessivi. Allora capisco che la complessità non fa bene a tutti, e rende molti più ottusi, pur illudendoli di essere qualcuno o qualcosa.

Non c’è nulla di peggio che non accorgersi di non sapere, di non capire; pensare di dominare il mondo con nuove tecnologie, e non vedere che ci stanno togliendo anche quell’ultimo tempo che ci rimane per ricordarci che respiriamo, magari aria viziata, ma respiriamo, per accorgerci che siamo vivi, magari profondamente malati nel corpo e ancor più nella mente, ma vivi. Accorgerci che oltre il nostro mondo artificiale ce n’è un altro, in agonia, ma c’è, e non è più semplice del nostro, però è più intelligente: la Natura sa cos’è la complessità, ma è una complessità che ha armonie a noi sconosciute, leggi ferree e tempi lunghi. Accorgerci anche che i castelli del benessere prima o poi saranno sfondati e dati alle fiamme se tutto intorno ad essi milioni di persone non hanno di che vivere, o anche solo se noi induciamo a credere che gli oggetti posseduti misurino l’importanza di un uomo.

Un tempo credevo che l’adolescenza fosse sempre, e per tutti, il periodo in cui si comincia ad interrogarsi stando anche ore a guardare il soffitto, o una montagna altissima, perché così era stata per me; credevo fosse il periodo in cui cominciare a misurarsi con un mondo che non ci corrisponde, non ci piace, un mondo da cambiare pensando e agendo. Oggi mi accorgo che molti ragazzi sono stressati come gli adulti tra mille attività divertenti o meno, e se resta del tempo libero raramente è occupato a pensare, e a provare a vedere davvero, non solo con gli occhi. Poi, quando un’emozione irrompe o un malessere profondo, ne sono sconvolti come bambini, e come bambini cercano di scacciarla con la prima cosa che capita, perdendo quell’attimo in cui potrebbero apprendere a diventare uomini e donne vere.

In Europa soprattutto noi italiani siamo un popolo incolto, che legge poco, che è stato plagiato da venti e più anni di politica becera, populista, capace di sdoganare il peggior individualismo, dilapidando i valori con cui la nostra democrazia si è formata, tradendo chi per essa ha perduto la vita.

Spero che qualcosa ci riporterà alla realtà, a comprendere, ma temo che non sarà indolore. Forse dovremo soffrire molto, forse le nuove generazioni avranno una ‘scuola’ feroce, e forse noi adulti dovremmo essere capaci di prepararli, renderli più forti. Ma quanti adulti tra di noi hanno smesso di essere bambini affamati di giochi pur di non pensare? O persone pronte a risposte semplici, stolte magari, quelle più facili o istintive, bassamente istintive?

E’ anche vero però che talvolta i popoli, e i giovani in particolare, sono capaci di salti di qualità poco prima impensabili, sospinti dalla necessità, ma anche dalla profonda e irrinunciabile esigenza che le cose abbiano un senso, che la propria esistenza abbia un senso, e la potente voglia di sentirsi liberi. Credo che questo sia uno di quei periodi cruciali in cui tutto possa avvenire, nel bene e nel male. Chi di noi è capace di vigilare, stia ben sveglio di fronte all’infrangersi dei flutti sui duri scogli della storia.

Un mondo stortoultima modifica: 2013-10-06T17:49:00+02:00da nadia2012a
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