Nadia Benni “Lo sfregio” ed. Primalpe

E’ appena uscito il mio primo romanzo. Genere distopico

Trama

In un’Europa sconvolta dai cambiamenti climatici e dalla disgregazione politica e sociale, con bande estremiste che spadroneggiano nelle aride pianure e nelle città, Mara sceglie di  rifugiarsi sulle Alpi, dove comunità, in gran parte autarchiche, cercano una difficile sopravvivenza. La protagonista però ha un altro problema: deve ritrovare suo marito e sua figlia dispersi in Germania nel tentativo di emigrare al nord per cercare una vita migliore.

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Insicurezza globale

Negli anni ’60, quando io ero ancora bambina, i ragazzi avevano paura della guerra atomica. Lo ricordo bene: paura della bomba. C’era stata la crisi di Cuba e la guerra mondiale era finita da non molto. Anche se noi quel tremendo conflitto non lo avevamo  vissuto, a subirlo erano stati i nostri padri e le nostre madri e le ansie, la fame, la paura di essere ammazzati da una bomba o da una mitraglia non erano cose lontane. Inoltre i  nomi delle città giapponesi evaporate dal fungo atomico erano lo spettro che tutti conoscevamo. Poi, per decenni, tutto questo sembrò superato, ancor di più quando cadde il Muro di Berlino e cessò la guerra fredda, poco più che una trentina di anni fa.
Nel nostro mondo sviluppato ci siamo abituati ad una vita tranquilla, comoda, spesso sopra le nostre stesse possibilità e soprattutto al di là di quelle del pianeta. L’altro mondo, quello povero, talvolta in guerra, ci faceva commuovere, ma per poco, poi altro assorbiva il nostro interesse. La progressiva distruzione della Terra, in maggior parte ad opera dei paesi ricchi, con le conseguenze che oggi sappiamo, l’avevamo presente, ma in fondo eravamo abbastanza fiduciosi che la scienza, il progresso, potessero comunque trovare delle soluzioni e poi che fosse qualcosa di ancora molto lontano. Ci sentivamo sicuri.
Nelle nostre società opulente la parola ‘sicurezza’ risuonava e risuona continuamente:  mettere la casa, il lavoro, i trasporti, la vita, la salute, il futuro economico della propria famiglia, dei figli, del paese-nazione in sicurezza, erano e sono cose estremamente importanti, su cui investire continuamente denaro e energie sia da parte  del pubblico sia nell’ambito privato.
A livello mondiale ci sono organizzazioni che trattano, seppur in modo in genere inefficace, aspetti di più vasta portata, che riguardano più paesi, talvolta continenti o l’intera umanità: la sicurezza alimentare e sanitaria ne sono due esempi  importanti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, i paesi ricchi fino ad oggi non hanno mai subito attacchi alla loro sicurezza, mentre per quanto riguarda il secondo, l’attuale pandemia ha fatto capire che nessuno è al riparo. Ha fatto anche comprendere che possiamo essere sicuri soltanto se tutti i popoli della Terra lo sono. Eppure non vedo il realizzarsi di progetti su larga scala per fare in modo che il vaccino contro il covid giunga in ogni parte del mondo e che il diritto alla salute non abbia confini.
Volendo poi toccare un altro argomento, oggi  di estrema attualità anche in Europa, il primo enorme motivo di insicurezza che hanno i popoli della Terra è quello dei conflitti armati. Su questo non vedo  assolutamente politiche atte a scongiurare, prevenendole, tali tragedie.
In questi decenni di pace e progresso illimitato ci hanno fatto credere che almeno noi occidentali potevamo essere sicuri, anche a scapito del resto del mondo, purtroppo. Ci hanno ingannato. Ci stanno ingannando.
Oggi le grandi potenze si stanno avviando ad una logica di solo scontro. Nonostante pandemie e cambiamenti climatici ci dimostrino ogni giorno che i problemi dell’umanità si possono risolvere solo con il contributo di tutti i paesi e di tutti i popoli, anacronisticamente ci si prepara alla guerra, armandosi ognuno sempre di più, cercando la supremazia sugli altri, mentre il mondo sta diventando sempre più multipolare e la collaborazione diventa assolutamente necessaria.
A questo punto della notte, perché si tratta di una notte oscura di cui non sappiamo se vedremo l’alba, mi chiedo se sia stupidità o se ci sia un piano diabolico e quale potrebbe essere.
Ci viene detto che bisogna armarsi per difendersi, che siamo in pericolo, che noi siamo il Bene, perché siamo democratici e che le autocrazie come la Russia e la Cina sono il Male e perciò vanno combattute. Ma al di là di schemi semplicistici e manichei, c’è una cosa che pochi dicono: la sicurezza internazionale non si ottiene con nuove cortine di ferro, ma con trattati, smilitarizzazioni reciproche, disarmo reciproco, perché la paura dell’Occidente è anche la paura della Russia e della Cina; la paura che il mondo sia dominato da un’unica potenza che eserciti in tutti i campi la sua supremazia a scapito degli altri paesi. Venendo ai fatti concreti: l’espansione progressiva della NATO non può aiutare la pace vera, non quella effimera basata sul terrore della guerra nucleare, perché rappresenta per l’Oriente la volontà assoluta di potere degli Stati Uniti che non vogliono considerare che bisogna scendere a patti perché il mondo non è solo loro.
La guerra in Ucraina è figlia di questa logica di supremazia delle grandi potenze a scapito dei popoli che vi sono coinvolti ed è un conflitto che si poteva evitare proprio andando nella direzione opposta alla contrapposizione. Sentire le ragioni dell’altro, garantire la sicurezza reciproca, riconoscere che la propria volontà di potenza deve avere limiti e anche che l’altro  può realmente sentirsi accerchiato, minacciato, umiliato, questi sono i passi da fare se si vuole realmente costruire la pace.
Ma lo si vuole davvero? Lo vuole davvero l’America statunitense? Lo vogliono la Russia e la Cina? O sono ormai tutti votati al confronto bellico, ovvero forse all’Apocalisse? Qual è il piano? E c’è un piano?
A queste domande è difficile rispondere e fa paura immaginare che si navighi solo a vista, ma ancor di più che il piano sia la supremazia ad ogni costo, anche se una grande parte del nostro mondo, dell’Umanità stessa andasse distrutta. Cosa gliene è importato dei siriani, degli iracheni, dei palestinesi, dei ceceni, dei curdi? E così di tanti altri! Cosa gliene può importare degli europei, degli ucraini e chissà di chi ancora, quando in gioco ci sono la politica imperialista, le ultime risorse energetiche, i traffici mafiosi, fiumi di denaro con cui cercare la salvezza individuale anche se gran parte del pianeta andasse in fumo e diventasse inabitabile?
Questo forse è l’ultimo sogno dei potenti, ma credo non durerebbe molto. Non ci si può salvare da soli e l’attualità di questi ultimi anni lo dimostra.

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lettera ai giovani

Cari adolescenti,

non pensate che noi adulti, presi dalla morsa del Covid, vi abbiamo dimenticato davanti ad un computer, che vi abbiamo sacrificato per non ammalarci, che gli insegnanti non siano preoccupati per il vostro presente e il vostro futuro. Probabilmente non abbiamo saputo prevedere né gestire bene la situazione, e neppure ora ci riusciamo, né a livello sociale forse, né a quello politico-istituzionale. Ma ne converrete che non è facile per nessuno.
Forse qualcuno di voi avrà avuto l’impressione che sia stato più semplice sacrificare l’istruzione piuttosto che l’economia, soprattutto quando si chiedevano aperture, tralasciando la  scuola.  Questo fa male, come fa male mettere la salute al secondo posto, quando dovrebbe essere ovvio che senza salute null’altro può esserci.
Ora c’è allarme per voi, per il vostro benessere psichico e per la vostra preparazione scolastica, soprattutto per i più fragili e economicamente in difficoltà; si parla di aumento dei casi di autolesionismo, disturbi dell’alimentazione, malessere, perfino suicidi. I dati statistici rivelano tutto questo, insieme ad un ampliamento della forbice delle disuguaglianze che non sarà facilmente superabile e che peserà moltissimo sulle nuove generazioni.
Io voglio credere però che nei momenti difficili possano anche nascere nuove consapevolezze, nuovi atteggiamenti verso la vita e il mondo, nuove risorse dentro di noi da mettere a frutto insieme agli altri.  Non so se per gli adulti questo periodo sia meno doloroso che per voi giovani, ma mi sento di dire che per certi versi i più pronti al cambiamento siete proprio voi.
Ho letto ultimamente i risultati del sondaggio  voluto dall’Unicef “Essere adolescenti ai tempi del COVID-19”, che ha coinvolto ragazzi dai 15 ai 19 anni. Ne sono rimasta colpita positivamente. Il sondaggio è nato per indagare circa la percezione che gli adolescenti in Italia hanno del loro benessere, in relazione all’impatto che il COVID-19 ha avuto nelle loro vite.
Da questo si evidenziano alcune cose interessanti:  la metà di voi pensa che durante i lockdown il digitale sia servito per non farvi sentire soli, ma molti sono consapevoli che non tutti hanno avuto facilità di accesso, rimanendo perciò ai margini e vedendo aumentare le difficoltà scolastiche. Il 65% di voi ragazzi è convinto che un sistema sanitario pubblico, gratuito e accessibile a tutti sia fondamentale per garantire la salute. Il 40% del campione pensa che la distruzione dell’ambiente provochi le epidemie; l’87% propone la diminuzione dell’inquinamento e dei consumi come comportamenti indispensabili per la salute e l’ambiente. Un terzo esprime il desiderio di una maggiore disponibilità di reti di ascolto e supporto psicologico.
Direi che si tratta di riflessioni che mostrano una certa maturità, una buona capacità di ‘leggere’ il periodo storico che stiamo attraversando, la consapevolezza del disagio e della necessità di cercare aiuto.
Spesso in questi mesi voi ragazzi siete stati incolpati di non rispettare le regole ed essere una delle cause della circolazione del virus, ma direi che certi adulti hanno fatto molto peggio, negando la pericolosità dell’epidemia e parlando di dittatura sanitaria, tra loro anche alcuni politici che sfruttano il malessere per ottenere consensi.
Perciò ragazzi, cercate di tenere ‘gli occhi aperti’: abbiamo diritto alla libertà, ma la prima libertà è quella dalla malattia, dalla morte e aggiungerei anche dall’egoismo.
Questo difficile periodo ci deve insegnare che nessuno si salva da solo, che se qualcuno sta male nel mondo, quel male prima o poi ci toccherà, che i problemi vanno risolti insieme. Ne siamo ancora lontani ed una cosa fra le altre lo dimostra: la resistenza a liberalizzare i brevetti dei vaccini e dei farmaci. Questa dovrà essere una delle vostre battaglie insieme a quella per contrastare i  cambiamenti climatici.
Il futuro è incerto, più che per le generazioni a voi precedenti da dopo la II guerra mondiale in poi, e allora voi dovete guardare lontano, questa volta nel passato, a quando fascismo e nazismo distruggevano vite, sogni e calpestavano barbaramente i diritti fondamentali dell’Uomo. Anche allora c’erano ragazzi come voi che hanno affrontato difficoltà e pericoli inimmaginabili e, seppur con immensi sacrifici, hanno combattuto e costruito il meglio che è venuto dopo. Sono stati coraggiosi, molto più, forse, di quello che si chiederà a voi, ma da loro potete prendere esempio.
Imparate ad essere forti perché l’Umanità ha di fronte sfide epocali. Il pianeta può ancora salvarsi, seppur per poco, e le ingiustizie, le disuguaglianze, le guerre possono ancora essere bandite, ma ci vuole un vasto movimento di giovani come voi che abbia il coraggio di rompere gli schemi e proporre cose che forse molti adulti vi diranno impossibili. Fatelo. Vi accorgerete di sentirvi meglio, perché partecipi, protagonisti. Vi accorgerete di non essere soli, di poter usare i social per qualcosa di nuovo, far circolare idee costruttive, sentirsi comunità, dare un senso alla vita e al futuro.
Cercate poi i più timidi, quelli più isolati, con più difficoltà, quelli fra i conoscenti o i compagni che si sentono soli, meno uguali o meno capaci e scrivete loro, aiutateli nello studio, telefonate, incontrateli se si può, fateli sentire insieme agli altri. Il futuro sarà più facile per tutti e voi scoprirete cose che neppure immaginate.

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Della scienza e del negazionismo

Se guardiamo alla scienza dal punto di vista epistemologico, ovvero partendo dallo studio e dall’analisi dei suoi metodi per valutarne la validità, possiamo dire che ogni scoperta o teoria scientifica è  vera fino al giorno in cui qualcuno non dimostri la sua falsità parziale o totale con serie argomentazioni e soprattutto esperimenti che la comunità scientifica possa riprodurre, osservare e studiare. Ne consegue che ogni teoria non è mai assolutamente vera, bensì probabilmente vera, anche se questa probabilità è la più alta possibile. La grandezza della scienza è la sua possibile falsificazione, come dice Karl Popper, e cioè la possibilità sempre presente di essere contraddetta da qualche nuovo esperimento o da qualche nuova osservazione. Inoltre, come ci spiega Paul Feyerabend, l’allievo di Popper che ha criticato il maestro, gli scienziati, se vogliono progredire nella conoscenza, devono andare oltre i paradigmi dell’epoca in cui vivono, fino a pensare l’impensabile, l’inedito; la scienza ha bisogno di libertà e pensiero divergente, addirittura attingendo anche da altri metodi di conoscenza, se questo può dare i suoi frutti. Tutto questo ci fa capire la complessità della scienza, la bellezza e garanzia che ci offre, pur non disconoscendone limiti e contraddizioni, perché tutto può essere rivisto e corretto a piccoli o grandi passi.
Ci sono state epoche e pensieri filosofici (il neopositivismo) che hanno idolatrato la scienza, credendo che da sola potesse migliorare l’umanità e la sua esistenza. Altre correnti ideologiche hanno mostrato sfiducia nella scienza a causa dell’uso che se ne è fatto, pensiamo ai mezzi di distruzione di massa, o considerando che la tecnica, da semplice strumento, è diventata qualcosa che plasma l’Uomo, rischiando di sfuggire al suo controllo.
A che punto siamo oggi? L’attuale negazionismo nei confronti degli avvertimenti della scienza (cambiamenti climatici, pandemia o altro), non fa parte di una critica costruttiva del mondo scientifico, né nasce da una preoccupazione etica circa l’uso degli strumenti che gli scienziati hanno a loro disposizione. Nulla di tutto questo. E allora qual è la natura di tale negazionismo?
Si può interpretare come una fortissima resistenza, che ha valenze paranoiche (ed è comprensibile solo inquadrandola nell’ambito delle patologie psichiatriche), a superare l’attuale modello socio-economico liberista perché incompatibile con la vita stessa. Mi spiego meglio: affermare la realtà della catastrofe climatica o della pandemia, obbliga a cambiare le priorità: l’economia deve mettersi al servizio della vita e non solo quella di pochi, ma del pianeta nella sua interezza umana, animale e vegetale; la politica non può essere l’ancella di un mondo economico e finanziario che ha come suo scopo la crescita illimitata della ricchezza e dei consumi, perché, a meno che non venga a mancare alcun senso morale fra i suoi fautori (e ci sono esempi eclatanti purtroppo), deve preoccuparsi di emergenze inimmaginabili fino a pochi anni fa e delle loro conseguenze sulla popolazione.
Certo non bisogna sottovalutare anche la giusta paura di molti di perdere il lavoro e impoverirsi, ma anche in questo caso la risposta non è razionale: non è per esempio negando la pericolosità dell’attuale virus che si ferma la crisi economica, perché prima o poi la gente entrerà autonomamente in lockdown, e cioè quando vedrà che gli ospedali non possono più accogliere nessuno, di qualsiasi malattia si tratti. Allora però sarà troppo tardi per evitare la catastrofe.
C’è anche un altro elemento che conduce al negazionismo e questo è il narcisismo. Per il  narcisista estremo, il mondo reale deve conformarsi ai suoi desideri e perciò qualsiasi cosa possa limitare la sua volontà e ostacolare i suoi progetti, va cancellata, negata. Oggi il narcisismo maligno e distruttivo, come dice Erich Fromm, è una patologia molto diffusa. Ne vediamo degli esempi importanti in alcuni politici che non sono assolutamente in grado di confrontarsi con gli altri e con il mondo reale, ma restano aggrappati al loro esorbitante desiderio di potere a qualsiasi costo.
La resistenza psicologica, che assume aspetti veramente patologici, chiamata ‘negazionismo’, non è presente solo fra le élite che contano o tra chi subisce le conseguenze della chiusura di fabbriche e negozi, ma trasversale a quasi tutte le categorie sociali. Questo perché l’attuale modello di sviluppo è il paradigma in cui siamo immersi e non sembra di poter vedere alternative che non mettano in discussione il modo di vivere di chi  è ricco o anche solo di chi mangia le briciole che cadono dalla mensa dei ricchi, convinto di poter avere di più adeguandosi al sistema vigente.
La Terra ci dice che dobbiamo cambiare oppure rinunciare alla civiltà o forse estinguerci; ce lo dice la scienza e anche l’osservazione più semplice delle cose in atto, ma l’Umanità non è pronta a mettere tutto in discussione il più velocemente possibile, a rinunciare a certi livelli di consumi o alla speranza di raggiungerli, a deporre l’ascia di guerra riconoscendo che abbiamo tutti lo stesso destino e gli stessi diritti. L’Umanità non è pronta a prendere coscienza che ha un problema smisurato che può solo tentare di risolvere con la collaborazione di tutti, o almeno cercare di mitigare le sue conseguenze. Molti preferiscono non vedere, non sapere e diventano aggressivi nei confronti di chi dice loro come stanno le cose. Si inventano un mondo che non esiste: complotti, teorie bizzarre, pur di non cambiare e continuare a vivere nell’illusione che il nemico sia fuori, sia altro da sé. Interpretano la realtà attraverso il pensiero magico per sedare l’ansia, resistendo con tutte le loro forze all’evidenza, tanto più se trovano  nel gruppo e anche in persone che appaiono autorevoli e vincenti, lo stesso atteggiamento.
Certo l’ansia per quello che stiamo affrontando e dovremo come umanità affrontare nei prossimi decenni è immensa, ma non è certo negando la realtà che potremo attrezzarci per sfide inedite e cruciali.
Mai come oggi ci sarebbe bisogno di guide sagge, capi morali capaci di parlare al cuore e alla mente della gente, di dare nuove speranze che non siano illusorie senza oscurare il male che abbiamo di fronte e che in grandissima parte abbiamo creato noi perché è dentro di noi. Alcune di queste persone ci sono, ma  troppo spesso la loro voce grida nel deserto come quella dei profeti di biblica  memoria; altre non hanno il coraggio di mettersi in gioco.
Alla base del negazionismo e della impossibilità a cambiare, credo ci sia anche una profondissima sfiducia nell’essere umano, talvolta anche inconscia, molto difficile da superare per tutti. Come possiamo ancora darci fiducia quando capiamo veramente quello che abbiamo fatto e stiamo facendo? Come pensare che si possa cambiare?
Forse la ritrovata fiducia, se mai ci sarà, potrebbe essere la molla per ricredersi, per superare quelle resistenze che ci stanno portando direttamente nel baratro.
La scienza che oggi va ascoltata certo non è quella che ci permette di inventare sostanze sempre più inquinanti, armi sempre più letali, fare esperimenti sempre più immorali. Quella scienza va ripensata, regolamentata, ed è quella in genere al soldo dei grandi potentati economici. La scienza che oggi va ascoltata è quella che ci dimostra dove certe premesse ci possono condurre, pur non pretendendo di avere certezze assolute e mettendosi veramente al servizio della vita in tutte le sue forme. La nostra intelligenza non oscurata dall’ansia e dalle resistenze può valutare, riflettere, per poter poi agire insieme agli altri perché quando i problemi sono collettivi sortirne tutti insieme è la politica.

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Pedagogia della pandemia

La pandemia potrebbe insegnare molte cose, soprattutto a noi dei paesi ricchi. Questo perché i popoli più poveri sono purtroppo abituati a convivere con immense difficoltà, anche sanitarie, grazie alla nostra indifferenza e allo sfruttamento dei loro territori ad opera del mondo cosiddetto sviluppato.
In cosa consiste quella che si potrebbe chiamare la pedagogia della pandemia?
Innanzitutto apprendiamo che non siamo invincibili, ma che possiamo essere fragili e indifesi di fronte alle forze della Natura quando queste si scatenano, e che la malattia e la morte non possiamo sempre ricacciarle in un altro da noi per dimenticarle. La vita diventa il bene supremo quando si ha la percezione che non è più qualcosa di scontato; infatti, anche se ci sentiamo forti e sani, dobbiamo convivere con la consapevolezza del pericolo. Ma se la vita è la cosa più importante, tutto il resto, l’economia, il divertimento perdono spessore, vengono dopo. Certo chi perde il lavoro e il guadagno è giustamente disperato, ma anche a costui se gli si chiedesse cosa è più importante, non esiterebbe a confermare la tesi che la vita viene prima di tutto, solo che, attanagliato dal suo problema, di cui lo Stato e la società devono comunque cercare di farsi carico, spera che non sia lui o la sua famiglia ad ammalarsi in modo grave. Se la vita è la cosa più importante, la direzione degli investimenti può cambiare profondamente: sanità e ricerca scientifica, da troppo tempo trascurate, diventano i campi in cui impegnare risorse.
C’è una maggior percezione dell’interrelazione di tutte le cose: in pochi mesi un virus pericoloso ha raggiunto e coinvolto tutto il pianeta. I facili e veloci spostamenti di merci e persone, la globalizzazione, hanno contribuito a tutto questo. Ci sentiamo ancora nemici gli uni con gli altri, eppure abbiamo lo stesso destino e dobbiamo prendere provvedimenti simili per difenderci da qualcosa che ci accomuna al di là di ogni differenza, l’appartenenza alla specie umana. I muri reali o ideologici non ci proteggono dal covid. Quello che potrebbe invece proteggerci da qualsiasi evento globale negativo, è proprio la cooperazione, la solidarietà, la condivisione delle informazioni e delle risorse, perché ciò che succede lontano da noi, in pochissimo tempo può cambiare e compromettere le nostre vite e il nostro benessere.
Per affrontare eventi globali ci vorrebbe un coordinamento globale, forse una qualche forma di governo mondiale. Per affrontare un qualsiasi problema mondiale nato da situazioni locali che sono il frutto di mancanza di regole sanitarie o di altro tipo, di controllo, di mancanza di istruzione o di risorse, occorre superare le disuguaglianze spaventose che abbiamo creato. Per affrontare quella che sarà la vera catastrofe, e cioè il repentino cambiamento climatico e gli enormi spostamenti di popolazioni che causerà, l’Umanità non potrà andare in ordine sparso e non ci saranno barriere ad impedire il manifestarsi delle conseguenze naturali, economiche e sociali.
Se non utilizziamo da oggi la pedagogia di questa pandemia per imparare e cambiare, le lezioni che verranno potrebbero essere sempre più spaventose.
Siamo in ritardo a capire e ad agire. In ritardo per il covid e in ritardo per quello che da tempo stiamo facendo al pianeta Terra. Nonostante tutta la nostra scienza, siamo come dei bambini che non sanno quanto può fare male sporgersi da un balcone o prendere il fuoco con le mani. I negazionisti e i minimizzatori, qualcuno dice riduzionisti, del covid non hanno imparato la prima lezione, e a dire il vero anche i governi, finito il lockdown, l’hanno presa un po’ alla leggera sospinti dalla ricerca del consenso e dal bisogno, questo serio, di rilanciare l’economia. Ma ecco che la seconda ondata ci fa ripiombare nella necessità di cambiare e in fretta. Purtroppo però le carenze strutturali non si risolvono in qualche mese. Per questo bisogna che impariamo davvero per il futuro.
Qualsiasi apprendimento costa fatica ed è tanto più concreto quanto si è emotivamente coinvolti, purtroppo molte lezioni col tempo si dimenticano e si rischia di doverle ripetere. Il nazismo, il fascismo e l’ultima guerra mondiale erano state una tremenda e orribile lezione e per un po’ qualcosa è cambiato, almeno in Europa. Oggi sembra che si torni indietro: populismi, razzismo, tramonto delle democrazie, indifferenza verso i più deboli, machismo, incredulità nei confronti della scienza. Eppure il pianeta per salvarsi, insieme a tutti quelli che lo popolano, deve andare in un’altra direzione, ha bisogno di altro e ce lo sta, a modo suo, dicendo. Cerchiamo di non costringerlo ad una pedagogia della ripetizione perché ci può costare veramente molto, moltissimo.

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Non solo pandemia

Negli ultimi secoli l’Uomo si è affrancato sempre più dalla Natura, progredendo enormemente in tutte le scienze e nella tecnica, anche se non tutti i popoli hanno usufruito di questo al medesimo modo.  L’umanità si è distanziata sempre più dal mondo naturale, nella convinzione di poterlo sottomettere e utilizzare all’infinto e a suo piacimento; si è dimenticata di essere un elemento del pianeta e non il suo assoluto padrone. Oggi è chiaro che le cose non stanno in questo modo: le pandemie sono tornate a spaventarci e, inoltre, la Terra è in pericolo a causa nostra ed è minacciata la nostra stessa specie.
Non passa giorno che non  ci siano notizie che dovrebbero farci precipitare nell’angoscia e sentire l’emergenza di provvedimenti drastici per evitare che i cambiamenti climatici si evolvano tanto tragicamente da rendere, se non impossibile, perlomeno molto difficile la vita sul pianeta. Scioglimento dei poli e del permafrost, emissioni di metano, incendi apocalittici, distruzione dei polmoni verdi del pianeta, isole di plastica negli oceani grandi come Stati, perdita della biodiversità, estinzioni sempre più accelerate: queste cose dovrebbero non farci dormire la notte, se non altro per le nuove generazioni.
E invece? Alcuni non si preoccupano neppure del coronavirus per ignoranza o ideologie fuorvianti; altri cercano di minimizzare perché ritengono che mandare avanti gli affari sia più importante della vita di migliaia di persone, molte delle quali anziane. Non ho scritto “neppure” per affermare che il virus sia peggiore delle cose elencate in precedenza, anzi lo considero il male minore anche perché si tratta di qualcosa di transitorio. Ciò che mi preoccupa è che la pandemia “si vede” mentre il declino del pianeta è meno evidente agli occhi umani non ben informati e capaci di lungimiranza; eppure neppure ciò che tutti possono “vedere” in molti suscita una forte reazione.
La pandemia potrebbe essere interpretata come un primo segnale, perfino blando rispetto a ciò che potrebbe accadere in futuro, che siamo in pericolo: un virus, che prima era confinato nelle foreste, fa il salto di specie perché quelle stesse foreste rischiano di non esserci più e la vicinanza degli esseri umani, invasiva, è ormai troppa. Un segnale, dunque, che così non si può continuare.
C’è la corsa al vaccino; si spera che a breve tutto torni come prima; qualcuno inventa complotti… Figuriamoci se c’è coscienza dell’altro pericolo, quello più grande: che gran parte del pianeta diventi inabitabile fra soli cinquant’anni!
E se il pensiero sfiora qualcuno? La reazione spesso è: “Non toccherà a me o sarò già molto vecchio”. Non a caso chi si preoccupa di più sono i giovanissimi, adolescenti e bambini: per loro il futuro comincia a mancare. Ma i governi? Le autorità? Anche loro vivono alla giornata come la maggior parte degli adulti che talvolta sono anche padri e madri o progettano di avere dei figli? Tutti a ballare sul Titanic!?
Il fatto è che la mente umana molto spesso si crea una sua realtà e vi si aggrappa, ha fede cieca in essa perché è piacevole e rassicurante: la realtà a cui si crede oggi è che comunque le cose andranno avanti, tutto continuerà come è sempre stato nella storia, fra alti e bassi, ma continuerà, e la scienza riuscirà  sempre a risolvere i problemi che via via si presentano. Non si crede cioè che possa esserci un punto di non ritorno, un capolinea, un limite invalicabile che smonta ogni costruzione umana e sconvolge uomini, animali e piante, la vita stessa. Questo avverrà se il cambiamento climatico non verrà arrestato, ma farlo implica un mutamento globale tanto imponente e immediato che è ben difficile che si realizzi senza una drastica presa di coscienza del problema, che non sia solo superficiale e a cui conseguano azioni draconiane che mettano in discussione tutto: la visione antropologica del rapporto fra l’Uomo  e la Natura e di quello fra gli umani stessi, il senso della vita, il sistema economico, le tecnologie e i materiali usati, i rapporti diseguali e conflittuali fra poteri e popoli, fino alle più piccole abitudini quotidiane.
Bruno Arpaia ha scritto un romanzo ambientato in Europa nel 2070 supponendo, su basi scientifiche, un aumento della temperatura ben al di là dei due gradi di cui si parla oggi: nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo la vita è ormai impossibile, né è più gestibile la situazione da alcun governo; profughi affamati e disperati tentano di andare a nord, i più morendo nel percorso, dove il clima è più mite e esiste ancora una qualche forma di civiltà e di Stato.
Non a caso, l’autore, ha messo come titolo alla sua opera: “Qualcosa, là fuori”, volendo dire che al di là delle costruzioni mentali umane che rappresentano la realtà e il corso degli eventi secondo certi schemi spesso non veritieri, qualcosa c’è oltre la nostra mente, il mondo c’è e segue le sue leggi spesso tanto diverse dai nostri desideri, e con questo “qualcosa” dovremo fare i conti, perché sta cambiando velocemente, troppo velocemente.
Dal libro di Bruno Arpaia “Accadde molto in fretta. Quasi di colpo. Leila e Livio ebbero l’impressione che tutto stesse andando a rotoli, che i passi indietro che l’umanità stava compiendo sotto i loro occhi potessero da un giorno all’altro diventare irreversibili. Fino ad allora era stata una sensazione vaga, una confusa preoccupazione relegata piuttosto fra le eventualità improbabili, ma all’improvviso divenne consapevole e meditata, tangibile e sempre presente.

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Prima che venga la notte

Echi lontani
sulle frontiere del mondo,
non tuoni
ma lampi di morte.

Tu, donna-bambina
che imbracci un fucile
per la libertà,
prima che venga la notte,
parlami di te.

Tu, ragazzo che affidi
tutti i tuoi sogni
ad un viaggio impossibile
dentro il carello di un aereo,
prima che venga la notte,
parlami di te.

Tu che cammini braccato,
per andare in Europa,
o tu, che a cullarti è solo il mare,
prima che venga la notte,
parlami di te.

Tu, fuoco che bruci foreste riarse
e avvolgi ogni creatura
nel tuo mantello d’oro e di fumo,
parlaci di noi,
di quello che abbiamo fatto,
ai nostri fratelli e alla Terra,
credendo di essere eterni
perché avevamo il denaro.

Prima che venga la notte.

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Danzando sul Titanic

Molti di noi stanno su questo pianeta con la stessa incoscienza con cui i viaggiatori del Titanic conducevano le loro ultime ore di baldorie. Ci sono poche parole per descrivere quello che sta succedendo: è l’inizio dell’Apocalisse. Incendi inarrestabili in Siberia, ghiacci che si spaccano, ondate di calore, deserti che avanzano, mari di plastica, animali morenti sulla terra e nelle acque. Questa è la realtà e forse è già troppo tardi per rimediare o forse non si vogliono trovare soluzioni per ridurre la catastrofe perché significa cambiare stili di vita, tecnologie, logiche politiche e sociali, parametri di priorità, valori, considerarci un’unica nazione mondiale e un unico popolo di fronte ad un comune pericolo mortale.

Nelle società opulente si vive nel presente, ma non per essere, come i grandi maestri spirituali di tutte le tradizioni religiose insegnano, più consapevoli di sé e della meraviglia misteriosa che ci circonda, ma solo per consumare piaceri immediati ed effimeri. Nei tanti luoghi del globo, dove invece si soffre ogni privazione e disumanità, non c’è che il tempo di tentare la salvezza individuale e della propria famiglia attraverso qualsiasi cosa che possa dare speranza, anche una piccola speranza, talvolta a costo di rischiare la vita nei mari e nei deserti o per mano dei propri simili. Tra questi ci sono i “sommersi e i salvati”.

Tra i privilegiati per paese di nascita, molti non vogliono ‘salvati’, erigono muri, barriere di indifferenza ed egoismo, preferiscono che gli ultimi muoiano in mare, si parano dietro discorsi nazionalisti quanto mai anacronistici, provano e diffondono sentimenti razzisti come se il nemico fosse quello che ha un colore della pelle diverso o una cultura differente, mentre il nemico vero è ciò che abbiamo fatto al pianeta, (i ricchi più degli altri) e che oggi ci si rivolta contro.

Quelli più incoscienti dei paesi ricchi forse si illudono che lasciando morire i ‘meno fortunati’, o meglio  i più oppressi dal sistema economico che abbiamo creato, per loro possa esserci qualcosa da sfruttare ancora, ma non credano che sarà per molto tempo: in natura non ci sono ‘pasti gratis’ per sempre e chi soccombe cerca giustamente di ribellarsi, e anche di vendicarsi, soprattutto se non ha più nulla da perdere.

La salvezza del pianeta e dell’umanità, o anche solo della civiltà come noi la conosciamo, passa forzatamente attraverso un profondo cambiamento di paradigma economico, politico, sociale. Fino ad ora abbiamo depredato ogni ricchezza della Terra e dei popoli più fragili in nome del Dio denaro; ora i paesi ricchi e le loro multinazionali cercano di far pagare il prezzo della distruzione degli ecosistemi a questi stessi popoli, convinti che il capitalismo e i grandi capitalisti vinceranno su tutto e tutti, non importa se a costo di una società disumanizzata, totalitaria e schiacciando letteralmente, o lasciando al loro destino, milioni di esseri umani che hanno la sola colpa di essere nati nella parte ‘sbagliata’ o di appartenere ai ceti più indifesi.

Quello che i poteri economici forse non hanno così chiaro è che saranno travolti anche loro. Che non ci può essere sviluppo illimitato, alcuni l’avevano compreso già negli anni ’70; che la rabbia degli oppressi prima o poi esplode, qualcuno l’aveva scritto anche un secolo prima. A guardare ancora più lontano, la civiltà romana, che sembrava imperitura, fu sconvolta da coloro che erano ai confini, quando smise di integrarli.

La salvezza del pianeta e della civiltà vanno di pari passo con la salvaguardia delle risorse e con la loro equa distribuzione; non può esserci il 7% della popolazione mondiale che detiene e consuma, distruggendo la vita sulla terra e nei mari,  quello che deve dividersi il 93% della popolazione mondiale.

Il capitalismo è un sistema di produzione come altri ce ne sono stati nella storia, forse più capace di modificare se stesso, ma come gli altri subisce le sue contraddizioni e perciò finirà. La contraddizione principale è che non è compatibile con il proseguo della vita in un sistema limitato come quello terrestre. Questo è un principio molto semplice eppure così difficile da interiorizzare. L’altra contraddizione di fondo è che il capitalismo ha bisogno di mercati sempre più grandi, ma le disuguaglianze che crea tendono a far affiorare divisioni, confini, paure, barriere, conflitti che portano a nuove chiusure, quando non a guerre vere e proprie che ancor di più incidono sulla distruzione dell’ambiente.

Mi chiedo come pensano, se pensano, coloro che appartengono alla categoria dei potenti di uscire da queste situazioni? Forse si illudono di poter annientare gran parte della vita animale e vegetale sul pianeta e di buona parte della popolazione e sopravvivere loro e i loro figli in una società forzatamente militarizzata? Di creare un mondo totalmente artificiale per pochi privilegiati? Se lo credono, si raccontano solo una bella fiaba. O forse guardano solo, anch’essi, ad un orizzonte temporale ristretto a pochi decenni o ancor meno, senza dare alcuna speranza e prospettiva alle nuove generazioni, ai loro stessi figli?

Sono proprio le nuove generazioni che iniziano a preoccuparsi sentendosi defraudate del futuro e soprattutto di un futuro di sicurezza e pace: sicurezza ambientale, lavorativa, sanitaria, sicurezza di poter vivere e non solo, di poter sviluppare e manifestare le proprie capacità, inclinazioni, di poter crescere nella partecipazione, di poter vivere in un sistema aperto, democratico.

Nessuno sa cosa succederà, e anche se tutti gli studi e tutte le statistiche segnalano che siamo vicinissimi ad un punto di non ritorno, lo spirito dell’Uomo potrebbe ancora riuscire a modificare le cose, la Storia potrebbe ancora presentare l’inedito, seppur attraverso un periodo di caos che ci spaventerà terribilmente. Chissà che non sarà proprio la paura a farci fare, come Umanità, un salto di paradigma che oggi sembra ancora impossibile. Questa deve però essere la paura del saggio che cerca soluzioni inclusive, non l’angoscia paralizzante che porta al nichilismo o all’affidarsi ad un capo indiscusso e autoritario come durante i periodi peggiori del secolo scorso. In questo modo perderemmo del tutto ogni senso di umanità  insieme alla libertà e a tutti quei valori, di cui faticosamente ci siamo appropriati, che riconoscono che i diritti sono tali solo se appartengono ad ogni uomo che compare su questa Terra e che siamo tutti fratelli. Siamo anche fratelli di qualsiasi forma di vita che è sorta su questo nostro meraviglioso pianeta che gli astronauti osservano navigare nel buio mare dell’infinito cosmo, illuminato di azzurro.

 

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“La donna elettrica” film di Benedikt Erlingsson

L’Islanda: la terra vergine fra le ultime. La terra bambina, com’era alle origini: ghiaccio e fuoco, pascoli e deserti, mare e montagne quasi inabitate e bellezza infinita.

Nel film “La donna elettrica”, l’isola diventa simbolo dell’intero pianeta minacciato dalla follia umana, che non permette di vedere l’impossibilità dello sviluppo illimitato e la pericolosità dello sfruttamento incondizionato delle risorse da parte delle multinazionali che, di fatto, hanno ormai reso un guscio vuoto la stessa democrazia.

Una donna energica vi si contrappone, interrompendo più volte le linee elettriche con uno strumento semplice e antico, l’arco, e facendo poi saltare un pilone dell’alta tensione, dribblando le forze dell’ordine che spesso finiscono per prendersela con uno straniero di passaggio, simbolo forse del capro espiatorio di cui oggi si fa largo e propagandistico uso.

La protagonista dichiara poi pubblicamente le ragioni dei suoi gesti, nella speranza di contrastare l’indifferenza e dare informazioni che possano far nascere un movimento di resistenza fra i suoi concittadini e, forse un po’ ingenuamente, nel mondo intero.

La deflagrante dichiarazione viene subito sabotata dal potere politico ed economico con una raffinata strategia di persuasione e mistificazione, decisa proprio nel luogo più simbolico dell’Islanda: là dove si incontrano le zolle tettoniche di due continenti, dove passa una delle faglie più importanti del pianeta, e dove un tempo si riunivano i capi tribù per prendere all’unisono le decisioni più importanti.

La strategia fa leva su presunti pericoli per la democrazia, sulla condanna della violenza, sulle politiche ecologiste del governo e sul ricatto della disoccupazione. Intanto le grandi aziende occupano sempre più spazi in uno degli ultimi luoghi incontaminati del pianeta.

Per la “donna elettrica” la Terra è Madre che nutre e protegge e ha bisogno di essere curata e salvata a tutti i costi, perché è la vita stessa; solo così potranno sopravvivere le nuove generazioni il cui futuro è messo in pericolo dagli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici. Il rapporto di attenzione e protezione che la protagonista ha con la Natura è anche lo stesso che realizza nei confronti del prossimo e il fondamento è sempre il medesimo: l’amore. Si potrebbe parlare della proposta di una spiritualità, tutta al femminile, della Madre Terra, che può ritrovare oggi la sua ragione d’essere, considerando l’attualità delle problematiche trattate.

La protagonista è però lacerata dal desiderio di continuare la sua lotta, pagandone tutte le conseguenze, e quello di vivere la sua maternità adottando una bambina che vive in Ucraina, terra sconvolta da guerre e dall’immane catastrofe che si chiama Cernobil.

L’adozione le viene proposta nel momento meno adatto; infatti la donna viene arrestata e cade nella disperazione pensando alla bimba che l’aspetta. Altre persone però intervengono: un pastore, presunto cugino, si sostituisce a lei nelle azioni di sabotaggio; la sorella gemella, che percorre un sentiero di tipo interiore e mistico, si scambia con lei in carcere, per permetterle di recarsi in Ucraina a prendere la bambina rimasta sola al mondo.

Le due donne sembrano rappresentare istanze diverse dell’essere umano, che però si completano l’una con l’altra: la spinta verso l’esterno, l’azione politica e sociale, e quella verso l’interno, la meditazione e il ritiro dal mondo. Gandhi e Nelson Mandela, raffigurati nelle foto appese nella casa della protagonista, le hanno fatte proprie entrambe, hanno realizzato questi due aspetti, indispensabili a chi vuole tentare di rendere migliore il mondo.

Durante tutto il film, si manifestano delle presenze surreali: un trio musicale e tre donne che cantano indossando costumi tradizionali ucraini. Oltre al richiamo probabile alla religiosità primitiva islandese, ricca di esseri magici, queste presenze paiono rappresentare le somiglianze fra le antiche culture dei diversi paesi e mostrano, esternalizzandoli con i loro silenzi e i loro suoni, le emozioni che la protagonista vive. Talvolta il ritmo della musica diventa particolarmente incalzante per sottolineare la tensione, ma anche per ritmare il flusso del tempo  ed evidenziare l’urgenza di agire ora.

La scena finale è quanto mai simbolica: un autobus in Ucraina non può più procedere a causa di un’alluvione e le persone sono costrette a continuare a piedi nell’acqua che diventa via via più profonda. La terra asciutta è lontana, ma possono ancora arrivarci e portare in salvo pochi oggetti e la cosa più preziosa di tutte: i loro figli.

 

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Il ponte

Mi sembra sempre di esserci su quel ponte di Genova. Sbuco fuori dalla galleria ed è un sollievo vedere quel lungo nastro grigio di asfalto sospeso fra due monti, nel vuoto, con i suoi bianchi giganti che lo trattengono, lo sostengono, si ergono ieratici a dimostrare quanto l’intelligenza umana sappia sfidare l’impossibile. E’ un sollievo vedere quella strada nel cielo, perché vuol dire che sono quasi arrivata a destinazione.
Quante volte l’ho pensato! Oppure ero in partenza e con quel ponte finalmente lasciavo alle spalle il traffico intenso della città e cominciavo a correre verso un’altra meta.
Mi sembra irreale che non saró mai più lì, che quella strada è finita, che è accaduto, che il grande ponte è crollato, si è sbriciolato con il suo carico umano, con le vite ignare che si è portato dietro.
Quando qualcosa nella nostra vita c’è sempre stata e viene meno, qualcosa di familiare, di abitudinario, qualcosa che faceva parte di noi, del nostro paesaggio, delle nostre certezze, tutto dentro noi si smarrisce, si rompe e ci lascia attoniti. Non siamo abituati a pensare che le cose possano finire, che quello che davamo per scontato può di colpo cedere, inclinarsi, cadere, non esserci più.
Forse un ponte che crolla diventa una metafora dell’impermanenza, della nostra caducità, così come quella del nostro mondo, del nostro progresso effimero.
Forse sentire la nostra fragilità potrebbe farci fermare nella corsa pazza verso il baratro, e farci sentire più umili, più fratelli, mettere al primo posto ció che vale davvero: la vita, gli altri, la bellezza, la natura, la sicurezza di tutti.
Le auto che corrono verso il vuoto sono l’immagine della nostra società in questa epoca in cui costruiamo e distruggiamo senza preoccuparci del futuro, di ciò che lasciamo a chi verrà dopo di noi.
Le auto che corrono verso il vuoto… qualcuna si è fermata in tempo, ha potuto farlo. I conducenti hanno lasciato tutto e sono corsi indietro aiutandosi gli uni con gli altri a mettersi in salvo. Anche questo, talvolta, sanno fare gli esseri umani. Quelli che ancora potevano, che per fortuna o consapevolezza si sono accorti che la strada era finita.

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