Come un racconto…

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Il mio ricordo di Don Gallo

Me lo ricordo, Don Gallo, quando l’ho incontrato, diversi anni fa, in una stanzetta della Comunità di San Benedetto, e poi tante altre volte nella nostra provincia a parlare in pubblico. Un uomo semplice, anziano, ma con una vitalità incredibile; pronto a schierarsi, sempre con il vangelo sulle labbra e nel cuore, quello vero, quello che dice “beati gli ultimi” e “sono venuto a portare la spada”. Cos’è questa “spada” dentro al messaggio nonviolento? E’ scegliere, con coerenza, di stare dalla parte di chi subisce ingiustizie, dei poveri, di chi è guardato con fastidio o disprezzo. La “spada” è chiamare le cose con il loro vero nome, senza peli sulla lingua, senza compromessi. Questo era Don Gallo.

Stupiva a volte la sua schiettezza, un po’ tipica di tanti genovesi, il suo parlare diretto e talvolta un po’ rude nei toni e nel linguaggio, per nulla negare all’autenticità della sua persona e del suo messaggio. Forse a qualcuno non sarà sembrato un parlare da preti, ma certo chi aveva bisogno di capire e di sentire un uomo di chiesa veramente vicino senza paraventi e ambiguità, avvertiva forte il suo spirito.

Ogni parola di Don Gallo era forte, ma vera, di quella verità immediata che solo chi ha visto e vissuto la sofferenza e l’oppressione può amare davvero. Parole contro il potere, sempre. Parole di accoglienza, ma non di tutti in modo indiscriminato. Non si può accogliere il potente, il ricco, il disonesto, il perbenista, chi preferisce comode menzogne. Non è da cristiani discriminare forse direbbe qualcuno? Invece lo è, se a essere discriminato è il forte che non vuole cambiare, comprendere, diventare umile, mettersi al servizio del debole. Forse il Vangelo dice qualcosa di diverso? Amare il nemico non è forse dirgli in faccia la verità perché si converta? Don Gallo credo la pensasse proprio così.

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25 Aprile 2013

Al sacrario dei partigiani,

vicino al prato pieno di fiori

grigie tombe rinchiudono sogni,

giovani visi di un’altra epoca.

 

Scorre l’acqua

così come il tempo.

Giustizia e libertà,

parole ormai stravolte;

realtà per cui, allora, morire.

 

Difficile trovare un senso,

quando le battaglie

non sono mai vinte.

e a trionfare è sempre

Il volto orrendo o sorridente

del potere.

 

Restano solo il silenzio

fra i ciliegi selvatici,

e il bianco puro

e le mie inutili lacrime.

 

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Abbattiamo il sistema!?

Grillo è inferocito contro la casta, i partiti, e ora anche contro i senatori cinque stelle che non se la sono proprio sentita di rischiare di fare eleggere Schifani presidente.

Il leader genovese pensa ad un movimento che abbatta il sistema totalmente o che entri nelle istituzioni per cambiarle, e cambiare la politica del nostro paese? Sembrerebbe vera la prima, ma molti dei suoi elettori probabilmente non lo sanno,  e ciò crea non poca confusione.

“Abbattere il sistema” negli anni ’70 era una frase di moda e ora è tornata ad essere uno slogan ad effetto.

Allora ero giovane e anch’io facevo simili affermazioni. Oggi il mio cuore non è cambiato, né è invecchiato il mio spirito, ma so che le parole possono anche essere semplici e drastiche, ma la realtà è un’altra cosa, ed è molto più complessa.

Leggendo i commenti sul blog di Beppe Grillo, mi accorgo che in genere sono di due tipi: quelli che esprimono ragionamenti costruttivi e quelli che si limitano a sfogare ( e chi scrive ne ha tutto il diritto) la  rabbia con frasi, magari maiuscole, del genere: “Tutti a casa”, ”PDmenoelle = PDL, ”I partiti hanno rotto il c…” e cose simili.

Quello che mi infastidisce è l’apparente ( lascio sempre una porta aperta per il dubbio) incapacità di fare delle differenze, anche piccole, di evitare di dare definizioni preconcette su tutto e tutti.

Riconosco le grandi responsabilità del PD in questi anni: di non aver saputo rinnovare la politica, di aver salvato troppe volte Berlusconi, di aver nascosto “scheletri nell’armadio”, di non essere stato di sinistra, di aver abbracciato il liberismo, e chissà quanto altro ancora.  Ma non è possibile considerarlo in tutto simile a chi ha occupato un tribunale per garantire l’impunità al suo leader, con una mossa chiaramente eversiva della democrazia.

Le parole di Grillo accomunano tutti nella stessa disonestà, complicità a saccheggiare l’Italia e a piegarla alla criminalità organizzata, tanto che diventa un vero e proprio preconcetto che impedisce ogni dialogo. La strategia sembra proprio essere quella di ostacolare ogni riconoscimento di positività nell’altro per poterlo distruggere.

Io credo invece che le distinzioni vadano riconosciute ed espresse perché l’altro può essere un impostore incallito e irrecuperabile, ma può essere anche capace di rinnovarsi, di mettersi in discussione, magari se messo con “le spalle al muro”, come è giusto che avvenga, specie in politica, e in particolare quando “l’altro” è composto da diverse persone con idee, sensibilità, e moralità differenti. Io non posso mettere, per esempio, sullo stesso piano Berlusconi e Fini, così come Schifani e Grasso, e neppure D’Alema e Bersani.

Quello che vedo, in parte del movimento cinque stelle, è una sfiducia totale in tutto ciò che è al di fuori della loro cerchia, o almeno così appare dalle affermazioni del loro leader, in un atteggiamento rigido che sembra fossilizzato, come fossilizzati sono gli apparati di partito, e che impedisce di agire per il bene del nostro paese. Ancora una volta sembra ci sia il calcolo politico ai fini del bene della propria fazione, rimandando ad una ipotetica e futura vittoria assoluta il cambiamento vero e totale.

Grillo vuole il 100% dei voti? E’ poco più che una battuta in democrazia, e non sarebbe certo né possibile né auspicabile un governo senza opposizione. In democrazia il dialogo, e talora il compromesso sono indispensabili. Rivoluzione o riformismo? E chi dice che il riformismo vero non sia rivoluzionario, soprattutto perché possibile, mentre un tentativo di rivoluzione potrebbe essere un salto nel buio che ci consegna alla destra che già conosciamo. Gli italiani, anche quelli che lanciano turpiloqui, non sono davvero rivoluzionari, e questo non va dimenticato.

In fondo spero che il movimento grillino sappia quello che sta facendo, o almeno cominci a scoprire ciò che realmente vuole fare insieme, o al di là, del suo leader, e magari anche insieme a quelli che da loro si sentono spinti a ritrovare passione vera per la politica,  dimenticando i tornaconti personali.

Intanto sono contenta perché grazie ai ragazzi a cinque stelle, a cui io non nego  un po’ di fiducia, abbiamo la Boldrini alla Camera, Grasso al Senato, e un Bersani che per ora non vuole proprio saperne di accordarsi con questa destra impresentabile.

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“Viva la libertà”

Sera prima delle elezioni: vado a vedere il film di Roberto Andò “Viva la libertà” tratto dal romanzo “Il trono è vuoto”. Fuori nevica, eppure la sala è piena.

Siamo orfani. Lo siamo da tanto tempo. Orfani di una sinistra che abbia un progetto per il Paese e per il mondo, un progetto di cambiamento vero, che non salvi il demonio o non scenda a patti con lui. Una sinistra che abbia onestà intellettuale e morale, passione, che educhi la gente perché ha valori da esprimere e da testimoniare, e non che cerchi il solo consenso con vuota e triste propaganda, con gli stessi programmi, o quasi, dei suoi avversari.

Ci hanno lasciati orfani da tanto tempo, immersi nel loro grigiore di burocrati, chiusi nelle stanze del potere, prigionieri di se stessi, della propria avidità, ma anche della propria paura, senza più riuscire ad ascoltare il lamento degli ultimi e di chi crede ancora che sia sacrosanto chiedere giustizia.

“Viva la libertà” è un film attualissimo che stupisce e libera il desiderio, quel desiderio di mutamento profondo che talvolta perfino rimuoviamo, delusi come siamo, finendo nella depressione e nel cinismo che ci fa affermare: “tanto sono tutti uguali”, che poi vuol dire “tanto siamo tutti così”.

La trama è paradossale: un leader della sinistra italiana in crisi di consensi, stressato e incapace di rinnovarsi e rinnovare, fugge dalle sue responsabilità gettando tutti nel panico. Viene sostituito con il fratello gemello dimesso da un manicomio, ma invece della temuta catastrofe costui, con la sua eccentricità e genialità, sbaraglia gli asfittici giochi del potere e ridà forza al sogno e dignità al popolo e al partito.

Una bella fiaba che vuol smuovere le coscienze, che gioca su quella parte positiva e creativa dell’anima che c’è in tutti noi e, spero, anche negli uomini politici che conservano ancora qualche ideale e qualche valore.

Oggi il gemello pazzo è forse il comico che arringa le folle e che, se guardiamo bene al film di Roberto Andò, potrebbe costringere a cambiare anche il suo doppio, perché la follia, seppur geniale, non può governare da sola una nazione.

“Viva la libertà” ci dice anche che dobbiamo smetterla di delegare a qualcuno la sovranità che ci spetta di diritto, e che dobbiamo impegnarci politicamente e culturalmente in prima persona, perché non possiamo più essere spettatori opachi e rassegnati dello sfacelo a cui è giunto il nostro Paese.

Sera prima delle elezioni. Continua a nevicare. La sala è piena.

Chi dice che non c’è differenza fra la sinistra e la destra oggi sembra aver ragione, ma io so, ripensando alla storia, che la differenza c’è. Chiamiamola pure con altri nomi: giustizia sociale, partecipazione, libertà.

 

 

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La danza nel corpo

Noi occidentali ( ma questa non è più una definizione geografica) stiamo perdendo il corpo. Lo curiamo tantissimo, soprattutto nell’estetica, e negli odori, che è tabù sentire. Temiamo ansiosamente le malattie e cerchiamo di immunizzarci con medicine e vaccini, anche dalla vecchiaia. Ma il corpo non lo conosciamo. E’ l’alieno che abita la nostra casa, dorme nel nostro letto, mentre noi siamo concentrati sui nostri pensieri o sulle nuove protesi del nostro cervello.

E’ un estraneo, una macchina, che ci riempie di paura quando si accende qualche lampadina rossa. Una macchina complicata che deve obbedire agli ordini, e che ci terrorizza perchè sappiamo che non durerà per sempre e non potremo cambiarla, non tutta almeno, come le altre.

Ma cosa è veramente il  nostro corpo? La stessa domanda indica quanto spazio separi la mente da noi in carne ed ossa. Il corpo siamo noi. Lo sappiamo, ma spesso viviamo come se non lo sapessimo. Il corpo non è solo i nostri pensieri, né solo il mangiare sullo stomaco, il dolore che ci tormenta o il piacere che ci provoca: il corpo sono le emozioni della vita, e non solo la nostra, che hanno lasciato traccia di loro in ogni cellula. Il corpo è la nostra storia, il nostro ieri e il nostro domani così incerto, come individui e come specie.

E’ anche la “terra” con cui siamo fatti, la “terra” come forza vitale con i suoi ritmi ancestrali, la madre creatrice di cui siamo parte, che ci ha allevati e ci sostiene finché ne vale la pena, se accanimenti terapeutici vari non si mettono di mezzo.

Forse è per questo che al mio corpo piacciono tanto le musiche africane. Sì, proprio al mio corpo. Lui danza da solo, senza me ( quel me razionale). Non sono “io”, nel senso delle mie capacità volitive e mentali a dirigerlo. E’ il corpo che si muove, che mi parla, quando sospendo ogni divisione e mi lascio diventare terra, terra libera.

Non è un’esperienza difficile, si fa da sola. Basta ascoltare il ritmo e lasciare esprimere il movimento. Insieme vengono le sensazioni, all’inizio indecifrabili, che poi prendono “corpo” (appunto!). Nascono, si rivelano, si evolvono in noi che siamo questo corpo, che diventa meno estraneo, e un po’ più amico. Un amico che vuole tempo per essere ascoltato, che ci può portare in territori sconosciuti, dove non c’è più l’identità che crediamo di avere, nazionalità, preconcetti, anche su se stessi, ma restano la vita trionfante e la sua consapevolezza che danzano assieme.

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L’inferno

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Italo Calvino – Le città invisibili

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La ragazza di piazza Tahrir

E’ questo il titolo dell’ultimo libro di Younis Tawfik. E’ un lungo racconto dei ‘giorni della collera’ al Cairo, i giorni della primavera araba, visti con gli occhi di una giovane donna che si ribella sia al regime sia alle imposizioni familiari e della cultura in cui è immersa. Per la libertà la protagonista sfida la madre, che ha abbracciato il conservatorismo religioso intransigente per non sentire quanto la sua vita sia stata condizionata e distrutta dalle convenzioni più retrive della cultura maschilista. Allo stesso modo questa  ragazza, di nome Amal, sfida il potere con una forza, una determinazione, ma anche un’ingenua fiducia, che noi occidentali non siamo più abituati a vedere nelle nostre generazioni di giovani.

Mentre leggevo il libro, mi accorgevo che quel modo di sentire non ci appartiene, o meglio non ci appartiene più, perché mi ricorda lotte di altri periodi o perfino di altri secoli. Lotte in cui si mette la vita in gioco perché vivere, dovendo schiacciare nel fondo di se stessi l’ansia di giustizia e di libertà, non ha più alcun senso, o perché il domani non c’è, e ogni giorno va strappato ad un mondo ostile e violento che distrugge i sogni di chi, per età o temperamento, non può rassegnarsi a un’esistenza priva di speranza.

Nel libro si scoprono poi le varie figure che la primavera araba hanno compiuto, differenti fra loro, anche ostili fra loro: gli islamisti che vogliono una società fortemente religiosa secondo la loro interpretazione del Corano, che varia da gruppo a gruppo,  e i laici che, nelle piazze e durante le battaglie, non scandivano mai parole dettate esclusivamente dalla fede, e si riconoscono nelle stesse lotte che l’Occidente ha compiuto in secoli di storia per i diritti umani e la libertà di parola e idee.

I blog, i network, sono stati i mezzi con cui i giovani arabi hanno dato sfogo ai loro bisogni e al loro pensiero, dove uomini e donne si sono incontrati, riconoscendo di vivere lo stesso intenso malessere, seppur in modo diverso, dove i sogni hanno messo le ali e sono diventati movimento, corpi in piazza, lacerati, per chiedere di essere felici.

Younis Tawfik parla anche della poesia nel suo romanzo, esso stesso intriso di espressioni e sentimenti poetici.  Espressioni che a tratti mi ricordano il “Cantico dei cantici” per la bellezza di parole e metafore struggenti che narrano la passione per la propria terra e per il proprio amato. La poesia è molto sentita da questi popoli che hanno un cuore e un animo meno offuscati dal nostro gelido razionalismo e pragmatismo. Alla fine del racconto un gesto di libertà è diffondere versi, i propri, a dispetto dello spettro della repressione, anche se “i lupi non sono ancora scomparsi”.

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Appunti dalla Romania

Una piccola casa, una casa di legno nei Carpazi. Finestre tinte di bianco, gerani rossi. Tanti colori, vecchie decorazioni, tappeti a fiori tessuti in casa dalle donne. Piccole stanze, una stufa piastrellata di ceramica, un fornello arrugginito, una credenza sbilenca. Ancora tappeti per terra, sul letto, appesi alle pareti. Fuori c’è il pozzo e forse un gabinetto col buco, come quelli che i nostri vecchi ricordano ancora, nelle campagne di tanti anni fa.

Il paese è sdraiato fra campi e abeti, e la strada è percorsa da poche auto e da carretti trainati da cavalli. Ai lati, storti pali sostengono a fatica garbugli di cavi elettrici da cui parte una gigantesca ragnatela che si estende, un po’ vivace, un po’ minacciosa, su tutto l’abitato incappucciato dall’eternit, il materiale che ha sostituito le tradizionali mattonelle di legno che ricoprivano i tetti.

Poi, dietro una curva, si scorge un insospettabile villino moderno, e ancora una casa di blocchetti di cemento lasciata a metà, abbandonata a un incerto destino. Altre case molto semplici hanno finestre che sembrano chiuse da anni. In altri luoghi si ergono palazzi di tre piani addirittura sontuosi, ma dallo stile stravagante: colori forti, come rosso o viola, tetti di lamiera, come in decoratissime pagode, che luccicano al sole dell’estate insieme a vetrate a specchio gigantesche: un barocco d’altro genere, esasperato per ostentare qualcosa, e cioè lo status di famiglie rom arricchitesi. Gli altri rom invece rimangono fra le persone più povere della nazione. Misteri della ricchezza e della povertà: chi sono questi abitanti? Quali le loro storie? Perché ci sono sempre i vincitori e i vinti?

Domande simili sorgono anche quando si guarda alle terre coltivate. Lasciando gli orti di  montagna e le verdi praterie su cui pascolano piccole greggi e qualche mucca, si giunge nella pianura dove l’agricoltura è meccanizzata e ci sono immense estensioni a girasoli, granturco e segale. Ma accanto a grandi trattori e trebbiatrici le case sono ugualmente povere, talvolta fatte di paglia e fango intonacato; la gente è anziana. Di chi sono allora queste terre?

Prima, con Ceausescu, erano collettivizzate e qualcuno, il partito, diceva cosa si doveva fare e come; poi, dopo la rivoluzione, sono tornate agli antichi proprietari, ma, a quanto pare, i piccoli hanno dovuto cedere le loro, per l’impossibilità di dotarsi dei mezzi moderni di coltivazione; le hanno date via per un terzo del raccolto. L’idea, buona, della cooperazione forse ricordava loro troppo le imposizioni del regime, oppure i motivi sono da cercare altrove.

La montagna sembra meno triste degli orizzonti sconfinati, dove si possono incontrare anche grandi stalle in disuso, quelle del comunismo, o, peggio, siti industriali completamente abbandonati che rendono rugginoso e piuttosto tetro il paesaggio. Non sono meglio le grandi città, specialmente la capitale, Bucarest. Sembrano luoghi della rabbia insieme alla rassegnazione. Grigi i quartieri popolari, talvolta scalcinati i palazzi, le belle case storiche del periodo asburgico quasi mai restaurate. Auto impazzite tra aiuole spartitraffico rifugio spesso di poveri cani senza padrone e senza cure, braccati. Hotel di lusso vicini a quartieri in degrado, dove non sembra difficile diventare delinquenti, e non solo per mancanza di benessere, ma anche per mancanza di quella bellezza e armonia che dà pace all’anima.

Bucarest sembra una città infida, percolosa per il turista con gli euro in tasca, forse più di quello che è davvero, ma tale è l’impressione che fa, mentre le campagne rassicurano e la gente è onesta nonostante le difficoltà e la durezza della vita.

Chi viaggia per la Romania per la prima volta non manca di visitare i tanti monasteri ortodossi situati nelle regioni più belle e devote a Dio. Sono oasi di pace, curatissime, molto visitate dai fedeli. Monasteri fortificati, o dipinti, del 1400 o 1500, abitati da monaci o monache ben vestiti, che mostrano una vita quasi sempre sobria, ma senza sacrifici, operosa nei bellissimi orti e giardini. Talvolta questi monasteri sembrano perfino contrastare con la maggiore povertà dei villaggi attorno: anche in questo caso è difficile capire e perciò giudicare, ma lascia un senso di perplessità, come se ci potesse essere un inganno celato, un qualcosa di malsano in tale evidente disparità.

La religione sembra il rifugio di molte persone di queste terre, l’altro è l’emigrazione. Partire per assicurare un futuro alla famiglia che resta, per ricostruire la casa, far studiare i figli, avere un domani. Quante persone incontrate conoscono le città italiane e un po’ della nostra lingua! Chi per aver trascorso un periodo di lavoro in Italia, chi per essere stato ospite da parenti a Torino, a Milano o altrove. Gli euro attirano, così come l’Europa di cui fanno parte, anche se a volte è difficile rendersene conto. L’Europa effettivamente sembra molto lontana, tranne forse che per la lingua così vicina al nostro vecchio latino portato tanti secoli fa dai soldati dell’Impero. Roma conquistò la Dacia per dominarla. I nostri imprenditori, oggi,  si dice che lo facciano  per sfruttarla.

Il lavoro non c’è anche se la manodopera è a basso costo; ora la crisi si fa sentire e la speranza di miglioramento sembra spegnersi ogni giorno di più. Eppure è forse proprio questa speranza, insieme al senso del dovere, che spingeva un netturbino, che ho veduto a Costanza, a ripulire dai rifiuti una piazza deserta alle due del pomeriggio, sotto il sole, a 37 gradi di temperatura, per uno stipendio per noi quasi incredibile.

 

 

 

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Diaz

“Sono tutti dei violenti, dei sediziosi, dei comunisti, dei black bloc che hanno distrutto la città. Uno di loro è morto e ora vi odiano. Dategli una lezione, fategli vedere chi ha il manganello, chi ha la forza…picchiate!”: questo, o qualcosa del genere, potrebbe essere stato detto alle squadre di polizia prima di assaltare l’intero corteo di duecentomila manifestanti pacifici che si snodava lentamente, parallelo al mare di Genova. E poi, la sera, prima dell’agghiacciante irruzione alla scuola Diaz dove ragazzi provenienti  da tutti i paesi europei si accingevano a dormire. Era il 21 luglio 2001.

L’altro deve diventare il nemico, senza volto, senza differenze, senza comprensione di chi è, e di cosa vuole. L’altro diventa il mostro, come in ogni guerra, altrimenti uccidere sarebbe molto difficile. Sarebbe anche difficile, come in questo caso, scaricargli addosso tutta la propria violenza, la propria rabbia, senza vedere se è un ragazzo indifeso, una ragazzina terrorizzata, un vandalo che sta per dare fuoco a un’auto o a un negozio, o un delinquente che si accinge ad ammazzare qualcuno.

Nel film “Diaz”, di Daniele Vicari, che sta girando in questi giorni nelle sale cinematografiche, purtroppo con pochi spettatori perché la sospensione della democrazia a Genova, durante il G8, è stata già dimenticata, e non sempre compresa, c’è una scena molto significativa.  Un poliziotto vede, fra i feriti della Diaz portati in ospedale, un vecchio con un braccio rotto e gli chiede cosa ci facesse lui fra quei comunisti, fra quei violenti. Il vecchio lo guarda quasi sorridendo e gli mostra un vicino di letto, pieno di lividi, tagli e bende; gli dice che quel ragazzo è un giornalista di una testata neppure di sinistra: la Gazzetta di Bologna. Poi aggiunge: “ Avete fatto una cazzata!”.

Quello che il film non chiarisce è perché tutto questo è avvenuto: se per incapacità a gestire una situazione delicata e complessa, o per un disegno da macelleria cilena. Neppure spiega ciò che veramente aveva spinto migliaia di giovani, e meno giovani, a protestare contro una globalizzazione che non ha pietà, né giustizia per i più deboli del pianeta, e che forse solo ora stiamo vedendo dove veramente sta portando anche le economie ricche dei nostri Paesi.

Il popolo no-global andava dagli scout agli anarchici: una compagine variopinta, multiforme, la cui colpa forse fu solo quella di non aver saputo controllare esigue minoranze di vandali, come ci sono spesso nelle tifoserie del calcio, con la differenza però che in tali casi sono proprio le forze dell’ordine che intervengono ad isolare i teppisti. A Genova invece i violenti hanno spesso agito indisturbati e poi la loro presenza è stata usata per giustificare una brutale repressione generalizzata.

Io ero nel corteo fra Boccadasse e la Foce, e, ingenuamente, mi aspettavo che le forze dell’ordine difendessero il mio diritto a manifestare pacificamente le mie idee, tenendo lontane da me sia la violenza dei black bloc, sia quella di chi, solo perché ha una divisa, ha voglia (o ordine) di prendere a bastonate persone inermi.

E’ solo per fortuna, caso fortuito, che il mio corpo non ha dovuto subire la brutalità dei manganelli, se non sono stata arrestata senza alcun motivo, se non ho vissuto quelle umiliazioni e quegli abusi intollerabili che vi sono stati nella prigione di Bolzaneto, e di cui vi è ormai ampia testimonianza. Violenze fisiche e morali indegne di un paese civile su giovani disperati, impossibilitati a difendersi, su ragazzine deturpate dai segni delle botte, che continuavano a piangere, come si vede nel film. Sembrava una vera guerra, ma qui la forza era unilaterale, come in una dittatura. In Italia non esiste il reato di tortura.

Il processo che c’è stato ha chiarito tante dinamiche, come le molotov nascoste dalla polizia nella scuola per mostrare la necessità dell’irruzione, ma pochi degli autori sono stati identificati e le pene sono state comunque irrisorie, mentre i veri responsabili, quelli delle alte sfere, non sono stati quasi toccati.

Alla proiezione del film c’erano un padre e una madre di un ragazzo ferito dalla polizia, e poi arrestato, mentre cercava di andare alla stazione a prendere un treno. Due giorni in carcere, prima a Bolzaneto, poi ad Alessandria, senza il benché minimo motivo. I suoi genitori all’inizio non sapevano neppure dove fosse. Rivedere tutto ciò che il loro ragazzo ha raccontato e ha poi testimoniato al processo, non è stato facile per loro. Sentire le grida, vedere la sofferenza nei volti dei protagonisti e sapere che tutto quello è veramente accaduto al proprio figlio, al proprio amico o amica, fa chiedere: “ Come facciamo ad avere ancora fiducia nelle forze dell’ordine e soprattutto in chi le comanda?”.

Io voglio però credere che anche chi ha commesso tali torture ( chiamiamole con il loro vero nome) abbia subito un trauma, sia rimasto segnato, e questo forse gli avrà fatto ripensare, in tutti questi anni, che era possibile e giusto agire in modo diverso.

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