Appunti dalla Romania

Una piccola casa, una casa di legno nei Carpazi. Finestre tinte di bianco, gerani rossi. Tanti colori, vecchie decorazioni, tappeti a fiori tessuti in casa dalle donne. Piccole stanze, una stufa piastrellata di ceramica, un fornello arrugginito, una credenza sbilenca. Ancora tappeti per terra, sul letto, appesi alle pareti. Fuori c’è il pozzo e forse un gabinetto col buco, come quelli che i nostri vecchi ricordano ancora, nelle campagne di tanti anni fa.

Il paese è sdraiato fra campi e abeti, e la strada è percorsa da poche auto e da carretti trainati da cavalli. Ai lati, storti pali sostengono a fatica garbugli di cavi elettrici da cui parte una gigantesca ragnatela che si estende, un po’ vivace, un po’ minacciosa, su tutto l’abitato incappucciato dall’eternit, il materiale che ha sostituito le tradizionali mattonelle di legno che ricoprivano i tetti.

Poi, dietro una curva, si scorge un insospettabile villino moderno, e ancora una casa di blocchetti di cemento lasciata a metà, abbandonata a un incerto destino. Altre case molto semplici hanno finestre che sembrano chiuse da anni. In altri luoghi si ergono palazzi di tre piani addirittura sontuosi, ma dallo stile stravagante: colori forti, come rosso o viola, tetti di lamiera, come in decoratissime pagode, che luccicano al sole dell’estate insieme a vetrate a specchio gigantesche: un barocco d’altro genere, esasperato per ostentare qualcosa, e cioè lo status di famiglie rom arricchitesi. Gli altri rom invece rimangono fra le persone più povere della nazione. Misteri della ricchezza e della povertà: chi sono questi abitanti? Quali le loro storie? Perché ci sono sempre i vincitori e i vinti?

Domande simili sorgono anche quando si guarda alle terre coltivate. Lasciando gli orti di  montagna e le verdi praterie su cui pascolano piccole greggi e qualche mucca, si giunge nella pianura dove l’agricoltura è meccanizzata e ci sono immense estensioni a girasoli, granturco e segale. Ma accanto a grandi trattori e trebbiatrici le case sono ugualmente povere, talvolta fatte di paglia e fango intonacato; la gente è anziana. Di chi sono allora queste terre?

Prima, con Ceausescu, erano collettivizzate e qualcuno, il partito, diceva cosa si doveva fare e come; poi, dopo la rivoluzione, sono tornate agli antichi proprietari, ma, a quanto pare, i piccoli hanno dovuto cedere le loro, per l’impossibilità di dotarsi dei mezzi moderni di coltivazione; le hanno date via per un terzo del raccolto. L’idea, buona, della cooperazione forse ricordava loro troppo le imposizioni del regime, oppure i motivi sono da cercare altrove.

La montagna sembra meno triste degli orizzonti sconfinati, dove si possono incontrare anche grandi stalle in disuso, quelle del comunismo, o, peggio, siti industriali completamente abbandonati che rendono rugginoso e piuttosto tetro il paesaggio. Non sono meglio le grandi città, specialmente la capitale, Bucarest. Sembrano luoghi della rabbia insieme alla rassegnazione. Grigi i quartieri popolari, talvolta scalcinati i palazzi, le belle case storiche del periodo asburgico quasi mai restaurate. Auto impazzite tra aiuole spartitraffico rifugio spesso di poveri cani senza padrone e senza cure, braccati. Hotel di lusso vicini a quartieri in degrado, dove non sembra difficile diventare delinquenti, e non solo per mancanza di benessere, ma anche per mancanza di quella bellezza e armonia che dà pace all’anima.

Bucarest sembra una città infida, percolosa per il turista con gli euro in tasca, forse più di quello che è davvero, ma tale è l’impressione che fa, mentre le campagne rassicurano e la gente è onesta nonostante le difficoltà e la durezza della vita.

Chi viaggia per la Romania per la prima volta non manca di visitare i tanti monasteri ortodossi situati nelle regioni più belle e devote a Dio. Sono oasi di pace, curatissime, molto visitate dai fedeli. Monasteri fortificati, o dipinti, del 1400 o 1500, abitati da monaci o monache ben vestiti, che mostrano una vita quasi sempre sobria, ma senza sacrifici, operosa nei bellissimi orti e giardini. Talvolta questi monasteri sembrano perfino contrastare con la maggiore povertà dei villaggi attorno: anche in questo caso è difficile capire e perciò giudicare, ma lascia un senso di perplessità, come se ci potesse essere un inganno celato, un qualcosa di malsano in tale evidente disparità.

La religione sembra il rifugio di molte persone di queste terre, l’altro è l’emigrazione. Partire per assicurare un futuro alla famiglia che resta, per ricostruire la casa, far studiare i figli, avere un domani. Quante persone incontrate conoscono le città italiane e un po’ della nostra lingua! Chi per aver trascorso un periodo di lavoro in Italia, chi per essere stato ospite da parenti a Torino, a Milano o altrove. Gli euro attirano, così come l’Europa di cui fanno parte, anche se a volte è difficile rendersene conto. L’Europa effettivamente sembra molto lontana, tranne forse che per la lingua così vicina al nostro vecchio latino portato tanti secoli fa dai soldati dell’Impero. Roma conquistò la Dacia per dominarla. I nostri imprenditori, oggi,  si dice che lo facciano  per sfruttarla.

Il lavoro non c’è anche se la manodopera è a basso costo; ora la crisi si fa sentire e la speranza di miglioramento sembra spegnersi ogni giorno di più. Eppure è forse proprio questa speranza, insieme al senso del dovere, che spingeva un netturbino, che ho veduto a Costanza, a ripulire dai rifiuti una piazza deserta alle due del pomeriggio, sotto il sole, a 37 gradi di temperatura, per uno stipendio per noi quasi incredibile.

 

 

 

Appunti dalla Romaniaultima modifica: 2012-09-24T16:58:39+02:00da nadia2012a
Reposta per primo quest’articolo
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.