Diaz

“Sono tutti dei violenti, dei sediziosi, dei comunisti, dei black bloc che hanno distrutto la città. Uno di loro è morto e ora vi odiano. Dategli una lezione, fategli vedere chi ha il manganello, chi ha la forza…picchiate!”: questo, o qualcosa del genere, potrebbe essere stato detto alle squadre di polizia prima di assaltare l’intero corteo di duecentomila manifestanti pacifici che si snodava lentamente, parallelo al mare di Genova. E poi, la sera, prima dell’agghiacciante irruzione alla scuola Diaz dove ragazzi provenienti  da tutti i paesi europei si accingevano a dormire. Era il 21 luglio 2001.

L’altro deve diventare il nemico, senza volto, senza differenze, senza comprensione di chi è, e di cosa vuole. L’altro diventa il mostro, come in ogni guerra, altrimenti uccidere sarebbe molto difficile. Sarebbe anche difficile, come in questo caso, scaricargli addosso tutta la propria violenza, la propria rabbia, senza vedere se è un ragazzo indifeso, una ragazzina terrorizzata, un vandalo che sta per dare fuoco a un’auto o a un negozio, o un delinquente che si accinge ad ammazzare qualcuno.

Nel film “Diaz”, di Daniele Vicari, che sta girando in questi giorni nelle sale cinematografiche, purtroppo con pochi spettatori perché la sospensione della democrazia a Genova, durante il G8, è stata già dimenticata, e non sempre compresa, c’è una scena molto significativa.  Un poliziotto vede, fra i feriti della Diaz portati in ospedale, un vecchio con un braccio rotto e gli chiede cosa ci facesse lui fra quei comunisti, fra quei violenti. Il vecchio lo guarda quasi sorridendo e gli mostra un vicino di letto, pieno di lividi, tagli e bende; gli dice che quel ragazzo è un giornalista di una testata neppure di sinistra: la Gazzetta di Bologna. Poi aggiunge: “ Avete fatto una cazzata!”.

Quello che il film non chiarisce è perché tutto questo è avvenuto: se per incapacità a gestire una situazione delicata e complessa, o per un disegno da macelleria cilena. Neppure spiega ciò che veramente aveva spinto migliaia di giovani, e meno giovani, a protestare contro una globalizzazione che non ha pietà, né giustizia per i più deboli del pianeta, e che forse solo ora stiamo vedendo dove veramente sta portando anche le economie ricche dei nostri Paesi.

Il popolo no-global andava dagli scout agli anarchici: una compagine variopinta, multiforme, la cui colpa forse fu solo quella di non aver saputo controllare esigue minoranze di vandali, come ci sono spesso nelle tifoserie del calcio, con la differenza però che in tali casi sono proprio le forze dell’ordine che intervengono ad isolare i teppisti. A Genova invece i violenti hanno spesso agito indisturbati e poi la loro presenza è stata usata per giustificare una brutale repressione generalizzata.

Io ero nel corteo fra Boccadasse e la Foce, e, ingenuamente, mi aspettavo che le forze dell’ordine difendessero il mio diritto a manifestare pacificamente le mie idee, tenendo lontane da me sia la violenza dei black bloc, sia quella di chi, solo perché ha una divisa, ha voglia (o ordine) di prendere a bastonate persone inermi.

E’ solo per fortuna, caso fortuito, che il mio corpo non ha dovuto subire la brutalità dei manganelli, se non sono stata arrestata senza alcun motivo, se non ho vissuto quelle umiliazioni e quegli abusi intollerabili che vi sono stati nella prigione di Bolzaneto, e di cui vi è ormai ampia testimonianza. Violenze fisiche e morali indegne di un paese civile su giovani disperati, impossibilitati a difendersi, su ragazzine deturpate dai segni delle botte, che continuavano a piangere, come si vede nel film. Sembrava una vera guerra, ma qui la forza era unilaterale, come in una dittatura. In Italia non esiste il reato di tortura.

Il processo che c’è stato ha chiarito tante dinamiche, come le molotov nascoste dalla polizia nella scuola per mostrare la necessità dell’irruzione, ma pochi degli autori sono stati identificati e le pene sono state comunque irrisorie, mentre i veri responsabili, quelli delle alte sfere, non sono stati quasi toccati.

Alla proiezione del film c’erano un padre e una madre di un ragazzo ferito dalla polizia, e poi arrestato, mentre cercava di andare alla stazione a prendere un treno. Due giorni in carcere, prima a Bolzaneto, poi ad Alessandria, senza il benché minimo motivo. I suoi genitori all’inizio non sapevano neppure dove fosse. Rivedere tutto ciò che il loro ragazzo ha raccontato e ha poi testimoniato al processo, non è stato facile per loro. Sentire le grida, vedere la sofferenza nei volti dei protagonisti e sapere che tutto quello è veramente accaduto al proprio figlio, al proprio amico o amica, fa chiedere: “ Come facciamo ad avere ancora fiducia nelle forze dell’ordine e soprattutto in chi le comanda?”.

Io voglio però credere che anche chi ha commesso tali torture ( chiamiamole con il loro vero nome) abbia subito un trauma, sia rimasto segnato, e questo forse gli avrà fatto ripensare, in tutti questi anni, che era possibile e giusto agire in modo diverso.

Diazultima modifica: 2012-05-13T10:13:00+02:00da nadia2012a
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