Tibet

Immagino il Tibet oggi: monasteri distrutti, o rimasti gusci vuoti per i turisti; cinesi che profanano ogni luogo sacro, vedendolo come simulacro di una sorta di medioevo, nel senso dispregiativo del termine; la ‘modernità’ che avanza come una piovra, cancellando il passato; la natura sfruttata senza rimorsi per l’armonia e la bellezza calpestate.

E i tibetani? Più di un milione sono stati uccisi dagli anni cinquanta ad oggi. Ma non è bastata al governo cinese la morte fisica di un popolo: oggi è anche l’etnocidio quello che viene sistematicamente perpetrato, insieme alla repressione violenta di ogni tentativo di ribellione.

E’ il colonialismo più spietato: la distruzione delle tradizioni, dei luoghi simbolo della religione, la cancellazione della lingua (che non viene più insegnata nelle scuole), l’offerta dei miti del consumismo, ma, ancor peggio, i nomadi costretti in campi di concentramento dove si lasciano morire insieme ai loro animali, le sterilizzazioni e gli aborti forzati, i matrimoni misti obbligati per eliminare i tibetani, per rendere tutti gli abitanti cinesi, e ancora il lavaggio del cervello nei confronti dei pochi monaci rimasti e l’obbligo di permettere ogni anno solo un esiguo numero di monacazioni.

E’ la brutalità estrema del colonialismo, quella che tante volte l’umanità ha conosciuto. E’ quello che hanno fatto gli europei con gli indios, i nuovi australiani con gli aborigeni…

Nel mese di aprile tre tibetani si sono dati fuoco, per disperazione forse, ma anche per ricordare al mondo che esistono, che non sono stati completamente piegati, che l’oppressione continua ad essere feroce.

Noi occidentali non abbiamo grande simpatia per le credenze e i riti del buddismo tibetano che, per lo più, riteniamo magici, e ci ricordano un certo oscurantismo medioevale; forse per questo pochi di noi si sentono veramente vicini a questo popolo. Ma quegli antichissimi riti hanno significati di cui l’uomo di oggi ha assoluto bisogno, e se colti nel loro vero senso, depurati un po’ da quell’alone di superstizione che noi riteniamo vi sia, e forse vi è, hanno messaggi profondissimi per l’intera umanità.

Oltre a questo, nulla può giustificare la distruzione di una cultura, e delle persone che ne sono portatrici; anche gli europei alla conquista delle Americhe, o dell’Africa, ritenevano di portare la civiltà, ma quale civiltà? La vera civiltà è la libertà, l’ascolto, il rispetto. Ciò che invece è vincente è l’appropriazione delle risorse di un territorio, per questo si commette qualsiasi brutalità.

Per quel poco che conosco del buddismo, so che la visione della vita è, non solo diversa, ma addirittura opposta al modello che ormai caratterizza gran parte dell’umanità (pur non peccando di ingenuità dimenticando che anche i buddisti hanno commesso le loro ingiustizie, soprattutto nei confronti della precedente religione Bon): ogni esistenza viene vista in una profonda interconnessione con tutte le altre e va rispettata, anche la più umile; l’obiettivo di ognuno è la purificazione interiore superando i desideri che provocano sofferenza, abbandonando il proprio io per una vita e una rinascita felici.

Immagino come potrà sentirsi un giovane tibetano, lacerato da modelli contrapposti, senza identità, che vede distrutto il suo popolo e ogni cosa che lo rappresenta. Quale futuro potrà attendersi sottoposto ad indottrinamento o repressione, travagliato da una scelta disumana: diventare altro da sé, o perire?

C’è però in tutto questo un risvolto, che la storia ci insegna, e che vediamo già in atto: la diaspora dei tibetani ha portato il buddismo nel mondo.

Il buddismo, che ritengo in sostanza essere una filosofia, oltreché una religione, ha attecchito anche da noi, in forme più razionali e adatte al mondo occidentale, perché risponde ad esigenze ormai fortissime di spiritualità, di interconnessione e di senso della vita. Esiste la cosiddetta curva della felicità del buddismo che ci spiega, per esempio, che un aumento del benessere materiale fino ad un certo punto amplia la piacevolezza della vita, ma, se va oltre, la diminuisce, soprattutto perché non lascia spazio ad altro, ai veri bisogni dell’essere umano.

Mi viene allora da pensare che quella che appare la triste morte di una cultura, è anche un momento di diffusione dei suoi elementi essenziali: diventa seme che fiorisce altrove. Certo per i tibetani questa non può essere una consolazione, e il mondo dovrebbe farsi carico della loro sofferenza. Purtroppo però chiedere all’Occidente di condannare i cinesi, è chiedergli anche di condannare se stesso e la sua storia di dominio. Per questo forse gli interventi sono piuttosto tiepidi.

Inoltre, a noi, e anche ai cinesi, viene raccontato sempre che… in fondo in Tibet è arrivato… il PROGRESSO!

 

Tibetultima modifica: 2012-05-09T09:27:00+02:00da nadia2012a
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