“Non aspettarmi vivo”

Vorrei che molte persone leggessero il libro di testimonianze sui jihadisti tunisini delle due coraggiose giornaliste Anna Migotto e Stefania Miretti. Già il titolo, “Non aspettarmi vivo”, è di quelli che mette i brividi e fa capire molto bene il dramma di familiari, parenti e amici che vedono ragazzi giovanissimi, in genere ventenni,  cambiare da un giorno all’altro, o da un mese all’altro, e uccidere e  immolarsi per lo stato islamico.

Vorrei che molti lo leggessero perché è importante non vedere nel nemico solo il carnefice, ma capire cosa lo ha portato a compiere scelte per noi quasi incomprensibili e al di fuori delle nostre logiche e della nostra umanità; vedere in questi estremisti (ma la stessa parola in certi casi sembra quasi un eufemismo) una generazione che ha perduto il senso della realtà, scivolando in convinzioni medioevali, alla ricerca  di un mondo dove ci sono solo certezze, un’unica idea, con cui riempire il baratro di vuoto che ha dentro.

Vorrei che questo libro fosse letto anche perché mette a contatto con la complessità e la varietà culturale presente nel mondo islamico, spesso visto in modo stereotipato per scarsità di conoscenze e pregiudizi, difficili a morire anche quando è evidente che le prime vittime dell’Isis sono proprio i musulmani.

Come nasce un foreign fighter? Se, e quando, si pente di aver fatto quella scelta? Cosa fa sì che molti restino affascinati da tale prospettiva, ma poi, per fortuna, rinuncino a realizzarla fino in fondo? Cosa sono disposti a fare, talvolta, i padri, per salvare i figli? Come, e se, chi torna può essere rieducato e recuperato alla società? Quali sono gli ambienti, le condizioni sociali e psichiche, che più facilmente permettono il reclutamento? Come agiscono e chi sono i reclutatori? Quali i segnali che un genitore, un educatore e le stesse forze dell’ordine, devono osservare con attenzione?

Queste e altre sono le domande a cui l’approfondito lavoro d’indagine delle due giornaliste cerca di dare qualche risposta, pur lasciando naturalmente ancora aperti tanti interrogativi perché il fenomeno è di quelli che non fanno dormire la notte.

Mi ha colpito come i reclutatori facciano leva sulla ricerca di valori, suggerendo alle loro vittime come il loro modo di vivere sia privo di significato e che la ‘vera’ vita è altro. Di solito non parlano subito di religione, ma cercano di farle sentire colpevoli del loro vuoto, alimentando così una ricerca di senso a cui rispondono poi con una visione  delle cose di un manicheismo assoluto. La salvezza è abbracciare totalmente una fede cieca, anche fino al sacrificio estremo se il reclutamento è finalizzato al martirio. Questi ragazzi si immolano per essere qualcuno, per essere ricordati, avere una identità. Li assicurano che diventeranno loro stessi dei salvatori, facendo loro credere che, sacrificandosi, potranno garantire il paradiso a parenti e amici e che comunque la vita che merita di essere vissuta non è quella terrena, ma quella che li aspetta dopo. In altri casi li allettano con l’idea della costruzione di una società perfetta, il califfato appunto, dove andare a lavorare o combattere, promettendo anche l’acquisizione di notevoli possibilità economiche. Anche qui ha importanza l’aspetto identitario: smettere di sentirsi nessuno e avvertire di appartenere ad una comunità ideale, meglio ancora se si ha la prospettiva di vivere ‘alla grande’, soprattutto se si tratta di giovani in condizioni di emarginazione e povertà.

Tutto questo però in sostanza ci parla di che tipo di mondo abbiamo costruito, che prospettive valoriali e di integrazione sociale abbiamo dato alle nuove generazioni e alle seconde generazioni di immigrati, quale nullità di ideali. Ci parla di come non abbiamo saputo far sentire fondamentale la lotta per la democrazia, la libertà, i diritti, e trasmettere la consapevolezza che non ci sono vie facili e verità assolute, ma che il mondo è molto è più complicato e contraddittorio di come spesso la mente di un giovane immagina; ci parla di come non siamo riusciti a trasmettere i valori per cui tante persone sono morte e hanno combattuto contro i totalitarismi del Novecento. Ci parla forse anche di come i popoli arabi non abbiano saputo combattere contro i propri dittatori, dare prospettive economiche e ideali ai loro giovani, rimanendo chiusi, spesso, nell’incapacità di un rinnovamento religioso e politico autentico.

“Non aspettarmi vivo”ultima modifica: 2017-09-11T15:43:47+02:00da nadia2012a
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