Quale scuola…e quale società?

Dalla scuola ci si aspetta molto. Ci si aspetta che risolva il problema del bullismo e delle baby-gang, che elimini la dispersione scolastica, che faccia crescere cittadini responsabili, che intervenga là dove la famiglia non è in grado di educare….e poi ovviamente che prepari alla vita, alle scelte e, non ultimo, al lavoro. Ci si aspetta anche che accolga nel modo migliore chi ha bisogni speciali, chi è diversamente abile, chi è appena giunto in Italia da un paese straniero e non conosce la lingua. Inoltre si presume che educhi alla democrazia, ai diritti, alla legalità, al superamento dei pregiudizi, alla pace, alla salute e alla tutela dell’ambiente. Tutto questo dovrebbe farlo senza trascurare la conoscenza delle varie discipline, insieme al metodo per apprenderle, farle proprie, approfondirle, appassionarsi.

Le circolari ministeriali citano molti di questi aspetti e certo io, come insegnante, non posso che essere d’accordo. Come potrei non esserlo? Sono un’educatrice, ho a cuore la crescita dei ragazzi, spero ancora che la scuola possa contribuire a una società migliore.

E’ richiesto molto a noi insegnanti, ma possiamo davvero operare in tutti questi ambiti in modo efficace?

La risposta la cerco nella mia esperienza nella scuola superiore, ma mi accorgo che in realtà non c’è un unico giudizio che io possa dare, un giudizio lapidario.

Nella scuola si fanno moltissime cose, tanti progetti per raggiungere gli obiettivi richiesti, tanti sforzi; ogni giorno si cerca di dare messaggi positivi e stimolare l’interesse per il sapere, almeno per quella parte di corpo docente che è ancora motivata all’insegnamento. Ciononostante ci si sente sempre insoddisfatti, inadeguati al compito. O almeno io mi sento così. Ogni anno spero di riuscire a fare qualcosa di più, a trovare qualche metodo migliore per adeguare l’insegnamento sia alle rinnovate esigenze sia ai ragazzi che incontro, ma ogni anno ho la sensazione non che sia un totale fallimento, ma che sia sempre troppo poco.

La scuola non può essere un’isola felice: gli allievi, gli insegnanti, i metodi, il modo in cui è strutturata, sono figli delle contraddizioni della società e una vera riforma necessita un ripensamento antropologico, sociale e politico, che in realtà in questo periodo della nostra storia appare estremamente utopistico.

Ripensare la scuola, l’educazione, implica domande fondamentali, quali, per esempio, cosa sono la felicità, la libertà, cosa è la conoscenza, chi è L’Uomo, come si possono risolvere i problemi sociali, qual è la società migliore e il modo per realizzarla; implica un profondo discorso sui valori. Ma allora ripensare la scuola vuol dire anche ripensare la società, il modello economico, il rapporto con la natura, e non bastano certo i tentativi di riforma che sono stati fatti in tutti questi anni.

A dire il vero, una buona guida a quali valori educare l’abbiamo: la nostra Costituzione e i suoi principi. Ma quanta distanza c’è fra questi principi e ciò che i ragazzi vedono e sentono ogni giorno? Come non far loro pensare che tanto sia tutto inutile, siano solo parole? Come farli appassionare davvero ai valori nati dalla Resistenza e anche a trovarne altri loro, per affrontare le sfide odierne? Molte cose si fanno, ma non è abbastanza perché il compito è immane e la società non rispecchia affatto gli obiettivi educativi della scuola, talvolta neppure la famiglia. La scuola è lasciata sola, gli insegnanti sono lasciati soli.

Qualche volta, quando sono maggiormente presa dallo sconforto, penso che la scuola sia solo il luogo dei buoni propositi, e che poi purtroppo i ragazzi impareranno che il mondo fuori è un’altra cosa…

Un’esperienza che mi coinvolge da vicino, in quanto referente di un progetto di una rete di scuole superiori, è quella dell’inserimento dei ragazzi stranieri neo-arrivati. La nota del Ministero “Diversi da chi?”, sottolinea la necessità dell’inserimento immediato degli alunni neo-arrivati nella scuola italiana, nella consapevolezza che una “buona scuola” deve creare uguaglianza, adattando il programma con piani personalizzati e sostenendo l’apprendimento dell’italiano, come lingua seconda, attraverso un’adeguata offerta formativa. Si dà il caso, però, che questi obiettivi possano essere perseguiti esclusivamente attraverso progetti che, oltre ad essere piuttosto complessi già nella loro stesura, necessitano di finanziamenti che possono essere ottenuti partecipando a bandi di concorso indetti dalla pubblica amministrazione o da enti privati; perciò, per loro natura, si tratta di iniziative temporanee, legate alla disponibilità o meno di fondi, oltreché alla presenza di insegnanti specializzati nel campo. Tutto questo non permette di avere certezze su ciò che si potrà fare l’anno a venire e spesso neppure su cosa veramente sia utile. Infatti l’inserimento in una scuola superiore di allievi da alfabetizzare in italiano, nella maggioranza dei casi non dà buoni risultati sul piano del raggiungimento degli obiettivi minimi, seppur si comprende che è corretto dal punto di vista dell’integrazione sociale e culturale.

I motivi di questi insuccessi sono molti, alcuni anche imputabili a una certa mentalità di parte del corpo docente, secondo cui gli allievi vanno valutati tutti allo stesso modo, rinnegando o disconoscendo la lezione di Don Milani che insegna che non è possibile giudicare equamente se non tenendo conto delle condizioni di partenza. Ma non si tratta solo di questo: manca un chiaro piano ministeriale con finanziamenti cospicui e certi, e una formazione adeguata degli insegnanti, nessuno escluso.

Nonostante queste difficoltà, molto è stato fatto in questi ultimi anni, e personalmente ho visto diversi ragazzi stranieri, arrivati da poco nel nostro Paese, proseguire gli studi grazie alla loro ferrea volontà e alla capacità di noi insegnanti di trovare soluzioni per sostenerli, per dare loro l’unica cosa che possa farli sentire uguali: la parola per esprimersi. Ma il mio pensiero va spesso a quelli che hanno abbandonato, che hanno rinunciato, che abbiamo perso perché non hanno retto alla fatica a talvolta anche alle umiliazioni. In questi casi la scuola avrebbe potuto fare di più, ma doveva essere messa in condizioni di fare di più.

Per educare veramente e rendere “uguali” quelli che partono da situazioni di difficoltà (e non sono solo gli stranieri) ci vuole più scuola. Per formare ragazzi consapevoli della complessità del mondo che li circonda e dei valori che occorre coltivare sia per cercare la felicità sia per costruire una società inclusiva e un’umanità capace di affrontare le sfide più grandi della nostra epoca, ci vuole più scuola, e nella scuola ci vogliono più finalità educative e più insegnati motivati e preparati.

Sto pensando forse a una scuola a tempo pieno. Una scuola flessibile che permetta di coltivare anche gli interessi individuali, dove ci siano luoghi, tempi e occasioni di discussione, possibilità di essere seguiti individualmente per davvero e non solo sulla carta, dove la solidarietà sia coltivata al posto della competitività; una scuola dove  associazioni di volontariato e cooperazione abbiano ampia possibilità di presentare le loro attività, le loro idee e i loro valori agli allievi; una scuola che offra teatro, cinema, musica, arte, sport, ma soprattutto dove i ragazzi si sentano veramente partecipi di un progetto educativo da rifondare insieme attraverso il reciproco confronto. Una scuola a tempo pieno potrebbe offrire molto, magari non sempre obbligando; ovviamente avrebbe bisogno di un numero molto più elevato di insegnanti e di insegnanti che il Ministero dovrebbe formare davvero, secondo un progetto educativo chiaro e complessivo.

Di tutto ciò che ho descritto in precedenza, la scuola italiana non è priva; molte cose, come già affermato, vengono fatte, ma in modo frammentario, lasciandole alla buona volontà di insegnanti sottopagati e spesso poco considerati e poco aiutati in compiti difficilissimi. Inoltre manca il tempo. L’attuale riforma che prevede l’alternanza scuola-lavoro diminuisce ancora il tempo dedicato alla conoscenza e alla crescita, se non quella professionale e, anche in quest’ultimo caso, la difficoltà a trovare esperienze di lavoro formative e arricchenti non sempre permette il raggiungimento degli obiettivi proposti, inoltre costringe le scuole ad impegnare risorse umane e finanziarie che potrebbero essere usate in altre direzioni.

Come affermato all’inizio, una scuola diversa e migliore, pur senza sottovalutare le tante esperienze positive che oggi i ragazzi possono fare nella scuola italiana, deve partire da un ripensamento della società, dei valori, degli obiettivi educativi e poi, di conseguenza, dei metodi per raggiungerli. Potrà mai la nostra classe dirigente essere in grado di dare valide direttive coniugate alla capacità di ascoltare chi opera in questo fondamentale settore che rappresenta il futuro stesso della nazione? Non sono ottimista, visti i vari tentativi di riforma, la mediocrità dei nostri politici, la mancanza di lungimiranza, l’interessamento più al successo elettorale che al bene pubblico e, non ultimo, la perenne carenza di risorse finanziarie.

Ciononostante, considerando tutti i limiti della nostra pubblica istruzione, la scuola italiana è comunque un luogo che offre possibilità di crescita umana e sociale, di pluralismo, di educazione alla democrazia e alla cittadinanza, in cui i ragazzi possono esprimersi ed essere ascoltati, soprattutto possono scambiare idee e interrogarsi su se stessi e sul mondo che li circonda in modo molto più profondo che non in altri ambienti sociali o virtuali, superficiali, spesso conformisti e basati su stereotipi.

Quale scuola…e quale società?ultima modifica: 2018-03-07T17:06:09+01:00da nadia2012a
Reposta per primo quest’articolo
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.